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Graveyard, i rocker svedesi tornano col nuovo album, “6”

I Graveyard

I Graveyard sono tornati dopo cinque anni con un album nuovo di zecca. Si tratta del loro sesto lavoro in studio e gli svedesi hanno pensato con una certa fantasia di intitolarlo 6.

Sulla breccia dal 2006, i Graveyard nascono dalla scissione dei Norrsken, nel lontano 2000. La band, pur di ottima qualità, ottiene il risultato migliore proprio sciogliendosi. Infatti, la diaspora dà vita alle due band migliori del rock svedese. Il chitarrista Magnus Pelander forma i Witchcraft, che vivranno una breve stagione di gloria nel revival anni Settanta di qualche tempo fa.

Joakim Nilsson e Rikard Edlund si uniscono invece per un po’ agli Albatross prima di dare vita ai Graveyard. Il primo è un eccezionale cantante dalla voce profonda che però – a seconda delle esigenze – può arrochirsi in modo infernale o arrampicarsi in un suggestivo falsetto. Joakim è anche un valente chitarrista e sfoggia una chioma bionda fluente che ricorda quella di Duane Allman. Edlund è invece un robusto bassista.

Il loro sound, classificato in genere tra il doom e lo stoner, non è altro che un impasto di tutto ciò che suonava nel rock a cavallo tra Sessanta e Settanta. Non una sola delle note che suonano – va detto – non è già stata suonata mille volte nel periodo d’oro del rock. Eppure, i Graveyard riescono a ritagliarsi una nicchia in cui Led Zeppelin, Deep Purple, ma anche band minori come Black Cat Bones o Leaf Hound rivivono, ma con una loro originalità.

Con Hisingen Blues, secondo album del 2011, i nostri sembrano per un attimo poter fare il grande salto internazionale. Il disco suona benissimo e alterna cavalcate hard rock veloci e potenti a frenate psichedeliche. Lentoni come Uncomfortably numb o No Good Mr. Holden citano a piene mani Pink Floyd e celano slanci quasi prog. I Graveyard cavalcano il successo per un po’, prima di brevi scioglimenti e lunghe pause.

Oggi il complesso è rientrato nella dimensione che meglio compete loro, una nicchia ben nutrita di fan che apprezzano il loro suono, non originalissimo ma di grande qualità. Il discorso sul rock è troppo ampio per questa recensione, basti dire che se i quattro svedesotti fossero vissuti cinquant’anni prima la storia sarebbe stata ben diversa.

Il biondo Joakim e compagnia cantante non avrebbero avuto internet, lo streaming e una lunga aspettativa di vita, certo. Al loro posto, con ogni probabilità, ci sarebbe stato il successo a fianco di Stones e Zeppelin, groupie in quantità e droga come se piovesse. Sarebbe stato meglio o peggio? Bisognerebbe chiederlo a loro, consapevoli di discutere comunque di un argomento che sarebbe pura accademia.

Attualmente, da noi, ma anche nel mondo, la questione rock è relegata a futili discussioni sui Maneskin. Chi li elogia – giustamente, dato l’incredibile successo – e chi li denigra, dicendo che il rock non esiste più. Pochi, però, si degnano di mettersi a cercare se davvero qualcuno che suona il rock come cinquant’anni fa ci sia ancora. Se lo facessero, anziché tornare per la milionesima volta ad ascoltare i Led Zeppelin su quelle piattaforme che a sentir loro hanno rovinato la musica ma che utilizzano gratuitamente, scoprirebbero che sì, il rock esiste ancora. Scoprirebbero i Graveyard, per esempio.

E quindi eccoci a 6, il nuovo lavoro.
I Graveyard oggi sono Nilsson, Jonatan Larocca-Ramm, chitarrista dal suono perfetto e sempre lontano dal virtuosismo, il bassista Truls Mörck e Oskar Bergenheim, batterista dal drumming vintage e molto efficace.

6 è un album come – purtroppo – non se ne fanno più, o quasi. Un pugno di canzoni, nove, suonate come fossero live per poco meno di quaranta minuti di musica. Un formato ben lontano dai mastodonti che bisogna tirar fuori nell’era streaming, ammucchiando quintali di singoli usciti negli ultimi anni.

Il suono di 6 è quello classico dei Graveyard, e sbaglia chi considera il lavoro molto più intimista e segno di una virata verso altri generi. La band svedese ha infatti sempre alternato pezzi tiratissimi a ballate lente e ipnotiche. Si può anzi dire che questo saliscendi sia il loro marchio di fabbrica; in 6 la bilancia pende dalla parte delle ballad, tutto qui.

L’attacco è per Godnatt, pezzo lento e ricco d’atmosfera aperto da una chitarra tra Santo e Johnny e il western polveroso e stoner alla Morricone. La voce di Nilsson irrompe subito con la sua profondità quasi da crooner, mettendo i brividi. Il pezzo va avanti così, senza cambi di ritmo o accelerazioni: un perfetto viatico per immergersi nel mondo dei Graveyard.

Con Twice c’è subito una tipica accelerazione di stampo Graveyard. Un poderoso riff di chitarra ritmica, con la solista che ricama e Nilsson che canta in staccato. Poderoso e validissimo il lavoro alla batteria, che conferisce la giusta andatura al brano. Nel ritornello, a suo modo quasi melodico, fanno la loro comparsa anche dei coretti femminili che fanno west coast e vento tra i capelli.

Si va avanti con I Will Follow, brano lento dalle atmosfere doom con una chitarra che suona sulle corde basse a metà tra un rintocco funebre di memoria sabbathiana e una nenia western. Arriva subito un cambio di passo, con il ritmo che accelera e Nilsson che dà fondo alla sua arte e alla sua ugola. Si parla poco della voce di questo artista, basti dire che le parti più profonde ricordano Jim Morrison e le sue urla in falsetto non si arrampicano laddove osava Ian Gillan ma poco ci manca.

Un ricamo di chitarra psichedelica apre Breathe In, Breathe Out, passaggio di Psych Blues perfetto. La chitarra ritmica riffeggia dalle parti del blues più classico, mentre la solista dipinge intarsi da par suo. I cori femminili danno al tutto un sentore gospel tutt’altro che sgradevole. La seconda parte del brano è puro stile Doors ed è tutta appannaggio del chitarrista, che qui si fa davvero valere.

Jonatan Larocca-Ramm è, vivaddio, finalmente un chitarrista che non ha bisogno di far vedere quanto ce l’ha lungo coi soliti inutili virtuosismi. La sua lunga parte di chitarra è tutta sostanza, puro feeling che alterna scale blues e passaggi psichedelici senza perdersi in chiacchiere. Chiunque potrebbe suonare i suoi solo, potrebbe dire qualcuno: e allora perché non la fanno, invece di far addormentare l’ascoltatore a colpi di tecnicismi?

Sad Song, il pezzo successivo, è l’unico senza la stupenda voce di Nilsson – canta Truls Mörck – ma è paradossalmente uno dei passaggi migliori. Una bellissima ballata lenta e malinconica, con ritornello melodico al punto giusto e una voce sicuramente non eccezionale ma molto adatta alle atmosfere.

La seconda facciata di 6 si apre col metallo pesantissimo di Just A Drop, brano dalle forti influenze dei Black Sabbath. La chitarra che conduce propone un riff pesante come acciaio di Birmingham, mentre Nilsson torna ad alternare i suoi registri vocali con una grande prestazione.

Con Bright Lights si torna a rallentare, di nuovo con un’andatura da psichedelia di fine anni Sessanta. Il tutto è filtrato dalla sensibilità dei Graveyard e stavolta da una suggestiva chitarra che guida il brano sulle note più basse. No Way Out parte ancora lentamente, ma con un impeto quasi grunge. Sembra quasi di sentire i Soundgarden di Chris Cornell, coi quali peraltro la band è stata in tour.

Il ritornello apre di nuovo a soul e gospel e il brano procede in crescendo, pur rimanendo molto compatto. La chiusura è con Rampant Fields, un brano di nuovo molto lento, un classico sound Graveyard sospeso tra blues in minore e chitarre western. Anche qui il pezzo va in salita, per poi frenare nel finale, con una coda punteggiata dai liquidi ricami della chitarra di Jonatan Larocca-Ramm.

Insomma, al di là di quello che potete leggere in giro di 6, bollato un po’ ovunque come un buon album ma che segna l’ammosciamento dei Graveyard, qui dissentiamo. 6 è un disco che prosegue con tutti i crismi la storia della band. Un lavoro che va ascoltato più volte per essere degnamente apprezzato, con tempi e ritmi d’altri tempi, visto che oggi già un solo ascolto completo appare come una chimera.

Provateci e vi ritroverete proiettati in un mondo anni Settanta parallelo, dove i Graveyard portavano la Svezia in cima al mondo del rock prima delle melensaggini pop che ci porteranno – nel mondo reale – gli Abba.
Un mondo che, tutto sommato, non ci dispiace.

— Onda Musicale

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