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Hackney Diamonds, allegri ottantenni e il ritorno dei Rolling Stones

Hackney Diamonds

Hackney Diamonds è il ventiquattresimo album in studio dei Rolling Stones. La sua uscita arriva quando ormai pochi si aspettavano un colpo di coda della storica band.

L’ultima uscita vera e propria dei Rolling Stones risaliva infatti al 2005, ben diciotto anni prima di Hackney Diamonds, con A Bigger Bang. C’era stato nel 2016 il bel Blue & Lonesome, certo, ma si trattava di un omaggio alle radici blues, un disco composto di cover. Inutile dire che la morte del batterista Charlie Watts nel 2021, proprio mentre si rincorrevano le voci di un nuovo lavoro, aveva fatto tramontare molte speranze.

E invece, ecco Hackney Diamonds, undici pezzi nuovi di zecca e una cover finale, quella Rollin’ Stone di Muddy Waters, la vera sorgente del fiume blues di Jagger e soci. Un brano che chiude il disco ma che sa tanto di chiusura di un cerchio, e forse della carriera dei vecchi rocker.

Ma, senza stare troppo a girarci attorno, come suona al di là della nostalgia e della felicità di ritrovare dei miti del rock ancora in piena salute questo Hackney Diamonds? Beh, insospettabilmente bene. Il lavoro è fresco e – ci mancherebbe – ben suonato, questo va da sé. Quello che sorprende in positivo, è come i Rolling Stones riescano a evitare l’effetto nostalgia e allo stesso tempo riuscire a suonare perfettamente nei loro canoni consolidati in sessant’anni di rock.

Considerando i tempi in cui i Rolling Stones hanno iniziato e prosperato, ci si avvicina a loro quasi con incredulità. Quanti compagni di viaggio si sono perduti per strada, sia per gli inevitabili scossoni e scioglimenti, ma anche per le tante scomparse più o meno premature. Basti pensare ai Beatles, gli eterni rivali dei nostri, anche se più per beghe montate ad arte da stampa e marketing che non per indole.

I ragazzi di Liverpool, a tutt’oggi mito inossidabile, si sono sciolti nel 1970, ben cinquantatré anni fa. Ebbene, ecco che i Rolling Stones, attenzione, senza essersi mai sciolti e riuniti, sono ancora tra noi belli vispi. Certo, anche le pietre rotolanti hanno dovuto pagare il loro bel pedaggio al tempo. La morte di Brian Jones, certo, quella che ha fatto più rumore e scatenato più polemiche, essendo giunta tragicamente al culmine del successo.

Ma anche quella dell’elemento silenzioso, il tastierista Ian Stewart, per anni membro nell’ombra, prima di quella di due anni fa di Watts. Non solo, molti elementi si sono persi per strada, come il bassista Bill Wyman che abbandonò anni fa stanco dei ritmi di vita da rockstar e che appare in un brano di Hackney Diamonds, o di Mick Taylor, guitar hero che abbandona seguendo le sirene del solismo.

Oggi i Rolling Stones sono in trio collaudatissimo di anziani che, lungi dal dedicarsi ai cantieri stradali, se ne stanno ancora sul palco a darci dentro. Mick Jagger è stato il primo – il 26 luglio – a tagliare il traguardo degli ottant’anni. Keith Richards ha lo stesso target tra un mese e mezzo, mentre Ron Wood, chitarra solista e giovanotto del gruppo, ha appena settantasei anni.

Il pezzo si apre con la ben nota Angry, che ha fatto parlare più per il video che per la musica in sé. Il video clip che accompagna la canzone mostra una appariscente modella bionda che si dimena per le vie di Los Angeles, scarrozzata da una rossa Mercedes d’epoca. Dai cartelloni, grazie ai prodigi della grafica digitale, dei ringiovaniti Rolling Stones cantano e suonano il pezzo attuale con le sembianze storiche dei decenni passati.

Una scelta all’insegna di un kitsch datato che fa capire un po’ il target di riferimento nostalgico. Nella nostra epoca, ormai, utilizzare una sensualità così sfacciata e sessista attira per forza di cose quel tipo di pubblico che per fascia d’età simpatizza sia con i nostri ottuagenari eroi, sia col messaggio intrinsecamente datato e machista.

Il pezzo non è male, un riff che è la quintessenza dell’arte di Keith Richards, quella che lui stesso ha definito come “suonare la stessa canzone” per sessant’anni. Una canzone che, però, funziona anche stavolta. Il ritornello rovina un po’ l’efficacia, con la voce ancora identica a quella di un tempo di Mick sacrificata da un trattamento digitale evitabile. Nel canone il bell’assolo di Wood.

Get Close, con la partecipazione in sordine di Elton John e il sassofono di James King in bella evidenza suona un po’ banale e fin troppo caciarona. Si prosegue con Depending On You, brano che rallenta il ritmo in modo piacevole. Una ballata gradevole che non lascia eccessivi segni nella memoria dell’ascoltatore, con una discreta presenza della slide guitar.

Bite My Head Off è un’accelerazione tra il rock’n’roll puro e una sorta di pop punk. Il pezzo si distingue per la partecipazione di una altro golden boy, Paul McCartney col suo scintillante basso elettrico. Un brano efficace che sembra riportare all’energia degli Stones della seconda metà degli anni Settanta.

Completano il quadro di un pezzo ben riuscito un robusto solo di basso di Paul e una bella parte di chitarra elettrica.

Whole Wide World è un brano abbastanza curioso che strizza l’occhio a certa New Wave Brit, dalle parti dei Franz Ferdinand, prima di aprirsi in un ritornello catchy che si fissa in testa. Ed è quello che i nostri ragazzi volevano. Dreamy Skies chiude idealmente il lato A di un lavoro strutturato almeno nelle intenzioni alla vecchia maniera dei vinili.

Il brano è acustico, con tanto di slide quasi country e la voce di Mick, molto più a suo agio in queste atmosfere raccolte, che gigioneggia come ai bei tempi. Si tratta di una pura operazione nostalgia che sembra quasi uscire da una alternate take di Beggars Banquet – molto simile a No Expectations – ma in ogni caso riuscitissima. Fin qui il punto più alto di Hackney Diamonds.

Con Mess It Up i toni tornano a salire, con un bel riff di Richards alla Richards e Jagger che pare aver fatto un’iniezione del buon vecchio Gerovital. Il ritornello quasi da Discomusic fa quasi sorridere ma tutto sommato tiene bene. Live By The Sword vede il ritorno di Elton John e il basso del vecchio compagno di avventure Bill Wyman.

Finalmente i Rolling Stones rispolverano il blues degli esordi, col piano di Sir John che si diverte a rievocare atmosfere da profondo Sud e il basso di Wyman che rotola da par suo. Jagger arrota l’ugola come sa ancora fare, Ron Wood afferra il toro blues per le corna e – insomma – la formula funziona eccome.

Ad avercene di band giovani capaci di tenere banco in questi ambiti così. Cioè, ce ne sarebbero pure, magari anche nei pub il sabato sera ma, insomma, ci siamo capiti.

Driving Me Too Hard è un pezzo ben costruito ma fa parte di quelle volte in cui i nostri sbrodolano un po’. Troppo levigata, troppo ruffiana, un brano che non toglie e non aggiunge a un album che vive altrove i suoi momenti migliori. Tell Me Straight è una delle rare occasioni che vedono Keith Richards cimentarsi al microfono.

Il pezzo scelto non è male e la sua voce bassa e un po’ nasale non sfigura. Si tratta di una ballata all’americana che ricorda molto da vicino certi lampi di Bruce Cockburn, se avete presente, un grande cantautore e chitarrista troppo spesso dimenticato. Promosso.

Arriviamo così a quello che dovrebbe essere il climax del disco, Sweet Sounds Of Heaven, ballatona soul con Stevie Wonder all’organo e nientemeno che Lady Gaga ai vocalizzi. L’atmosfera è tra la chiesa pentecostale col predicatore che sciorina l’ennesimo gospel e la storica You Can’t Always Get What You Want.

Mick Jagger svaria con facilità nel suo habitat naturale, mentre Lady Gaga pare un po’ troppo impegnata e tesa a far bella figura per riuscirci; la sua prestazione è, come prevedibile, un po’ sopra le righe e per questo i suoi agguerritissimi fan grideranno al miracolo. In realtà, e Lady Gaga questo lo sa, un po’ meno di urla e sentimento avrebbero reso un servizio migliore. A lei, agli Stones e alla canzone.

La chiusura è invece – per chi scrive, ça va sans dire – il vero momento clou del disco. Rollin’ Stone, il pezzo di Muddy Waters a cui a suo tempo Brian Jones si ispirò in modo estemporaneo per creare il mitico moniker della band. Il brano è ribattezzato Rolling Stone Blues, ma poco importa, quando i nostri ragazzi ottantenni maneggiano la materia delle origini il risultato dà sempre i brividi.

La versione è resa col più classico downhome acustico, con tanto si armonica suonata da Mick e chitarra irrorata da appena un filo di elettricità che omaggia in modo filologicamente ineccepibile quella di papà Muddy. Un pezzo sentito mille volte e ciononostante un capolavoro. Signore e signori, questo è il blues.

Hackney Diamonds è insomma un lavoro che prolunga degnamente la discografia dei Rolling Stones. Non passerà agli annali come il loro capolavoro, per quelli bisogna tarare la macchina del tempo almeno a cinquant’anni fa, ma lascia con la voglia di sentire altro. E, se quello che Mick ha detto a proposito di pezzi rimasti fuori, potremmo aspettare meno di quanto si pensi.

Del resto, una Living On A Ghost Town – uscita in tempi bui di lockdown – non avrebbe certo sfigurato in Hackney Diamonds. Anzi, a dirla tutta, forse sarebbe stato tra i due o tre pezzi migliori. Se i brani scartati sono così, c’è da ben sperare.

— Onda Musicale

Tags: Keith Richards, The Rolling Stones, Mick Jagger, Paul McCartney, Mick Taylor, Bill Wyman
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