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Benefit, il difficile terzo disco dei Jethro Tull

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Nell’aprile del 1970 esce Benefit, terzo lavoro di una band che allora è considerata una grande promessa del rock, I Jethro Tull. L’album divide pubblico e critica: grande successo per i primi, mezzo passo falso per i secondi.

Spesso, tra i cliché dei critici, si parla della difficoltà del secondo album dopo un grande disco d’esordio. Per i Jethro Tull di Benefit si può trasalre la questione al terzo lavoro. This Was, l’esordio della band, pare infatti lontano di decenni, quasi fosse l’unico parto di una band che non esiste più.

This Was, infatti, era un lavoro con due leader. Quello storico e insostituibile, Ian Anderson, e quello altrettanto geniale ma – a quanto pare – rimpiazzabile di Mick Abrahams. Mick era, ed è, un grande chitarrista rock blues, ma come si suol dire, “la città è troppo piccola per tutti e due”. I Jethro Tull hanno bisogno di un solo capo e a spuntarla è Anderson.

Abrahams lascia per formare i Blodwyn Pig e l’istrionico Ian recluta Martin Barre, chitarrista più duttile e personalità più malleabile. E allora, Stand Up rappresenta quasi un nuovo esordio, coi suoni che si spostano dal blues a un folk rock con qualche velleità prog. E Benefit, in quest’ottica, ha l’onere di prova della conferma.

Il disco abbandona del tutto le influenze blues che facevano ancora capolino qua e là in Stand Up. L’ingresso, anche se non ancora come membro ufficiale, del tastierista John Evan sposta ancora più gli equilibri. Anderson si sente più libero di creare composizioni complesse che anticipano la svolta prog di Aqualung. Benefit finisce così per fare un po’ da album cuscinetto tra due giganti, Stand Up e Aqualung.

Il sound si muove tra riff granitici – sono pur sempre gli anni di Cream e Led Zeppelin – e passaggi folk, con l’anelito prog che dilata la durata di alcuni pezzi. I cambi di ritmo e la dicotomia folk vs rock sono spesso presenti all’interno dello stesso brano. L’atmosfera è però piuttosto cupa e risente del primo tour americano e della nostalgia e dei disagi che la lontananza da casa provoca ai ragazzi. In particolare ad Anderson.

Benefit è infatti registrato ai Morgan Studios, gli stessi di Stand Up, in una pausa del massacrante tour. Il pubblico premia, come detto, il disco, ma la critica è piuttosto severa. Rolling Stone, non sempre lucidissimo, lo definisce “piatto e noioso”, ma in generale l’album viene recepito come un mancato passo avanti rispetto ai precedenti.

A onor del vero, lo stesso Ian Anderson sarà negli anni piuttosto critico verso Benefit.
Ian lo definisce “un album piuttosto oscuro e crudo e, sebbene contenga alcune canzoni che sono piuttosto accettabili, non penso che abbia l’ampiezza, la varietà o il dettaglio di Stand Up”. Ancora, per Anderson il disco è “una parte naturale dell’evoluzione del gruppo”. Parole diplomatiche da cui non trasuda una grande passione per il disco.

La registrazione fa sfoggio di alcune tecniche innovative che allora muovevano i primi passi. La registrazione inversa – un must dopo i Beatles – o la manipolazione della velocità dei nastri. Artifici che però non sembrano organici alle canzoni, quanto piuttosto un tentativo di cavalcare l’onda degli effetti speciali. Per il resto, come ricorda Martin Barre, la produzione si orienta alla ricerca di un sound che sembri quasi preso dal vivo.

La copertina vede la band all’opera sul palco, ma in versione cartonata. Forse un rimando all’alienazione e ai difficili rapporti familiari che sono alla base dei testi di Benefit. Il tema della famiglia, dalla relazione di Ian con la prima moglie Jennie Frank a quella coi genitori, fino alla nostalgia nei lunghi tour, è quello che permea le dieci canzoni del disco.

Jennie Frank, all’epoca segretaria alla Chrysalis Records, e la mancanza che Ian prova per lei, sono del resto proprio il tema dell’attacco di Benefit, With You There To Help Me. Il pezzo è uno di quelli che sopravvive al tempo, tanto da diventare un cavallo di battaglia nei live della band. La partenza è malinconica, con la voce carezzevole di Anderson che traccia una bella melodia.

La chitarra di Barre sottolinea con robusti fill, suonando molto in primo piano e prendendosi la scena con un suono saturo e rotondo molto simile a quello del primo Clapton. Il pezzo cresce benissimo e i sei minuti e passa offrono il campo ideale alle svisate di Barre e al flauto del bandleader. Insomma, l’apertura di Benefit è eccezionale e il brano un sempreverde dei Jethro Tull.

Si passa Nothing To Say, tipica polemica alla Ian Anderson contro l’ipocrisia della società, dove è meglio fingere di non avere nulla da dire, nothing to say, appunto. Il brano ripropone, come suoni, lo stesso canovaccio dell’apertura. Una partenza con una bella melodia folk e la voce in primo piano che cede il passo a una serie di riff forse un po’ troppo spigolosi.

Il brano è a sua volta un classico del complesso, anche se forse meno replicato di With You There To Help Me, ma il tutto suona leggermente prolisso. Si prosegue con Alive And Well And Living In, canzone d’amore indirizzata forse a Jennie o forse alla madre di Ian, la cosa non si è mai chiarita. Il brano offre numerosi cambi di ritmo, a presagire le future scorribande prog, ma non è molto efficace.

Son è invece un pezzo rock il cui testo parla del difficile rapporto coi genitori – col padre autoritario, in particolare – forse sempre di Anderson. L’andamento ricorda molto da vicino il sound dei Cream, con la chitarra di Martin Barre che pare quasi una copia carbone di quella di Clapton. Nonostante la brevità, Son ha la particolarità della parte centrale, in cui la canzone si trasforma con un breve intermezzo acustico.

For Michael Collins, Jeffrey And Me, i Jethro Tull rispolverano il loro lato più genuinamente folk, con un attacco che pare uscire dal canzoniere di Pentangle o Fairport Convention. Michael Collins è l’astronauta dell’Apollo 11, mentre Jeffrey è l’amico di Ian Jeffrey Hammond, citato in un altro paio di brani. Hammond vivrà la curiosa parabola di passare da personaggio di canzoni a bassista del gruppo dal 1971 al ‘75.

To Cry A Song è un altro classico e uno dei passaggi più riusciti di Benefit. Non solo, è anche un po’ il prototipo di quell’Aqualung con cui l’anno dopo la band si garantirà un bel pezzo di immortalità artistica. Se non fosse chiaro che la nostalgia di casa è al centro dei pensieri del buon Ian, questo brano lo vede su un aereo che già pregusta il ritorno.

Tra riff geometrici, parti cantate in staccato con la voce effettata e cavalcate chitarristiche, la canzone scorre piacevolmente. Il basso di Glenn Cornick è molto in evidenza: un peccato che il bassista sia alla sua ultima prova con la band prima di essere licenziato.

A Time For Everything? ci offre una riflessione di Anderson scritta come se il protagonista fosse un cinquantenne che traccia un bilancio della sua vita. Chissà se Ian immaginava che a quasi ottant’anni sarebbe stato ancora in tour a fare il matto col suo flauto. Il brano non è tuttavia tra i più riusciti del repertorio.

Con Inside il ritorno a casa finalmente si compie. Ian, tiriamo un sospiro di sollievo assieme a te, che davvero non se ne poteva più. Scherzi a parte, la gioia di casa trasuda anche nel pezzo, forse il più solare del disco e con accenti quasi country. Non un capolavoro, va detto, ma comunque un momento leggero all’interno di un lavoro la cui cupezza, a un certo punto, pesa un po’.

Play In Time racconta in musica l’approccio musicale di Ian Anderson, narrando in un passaggio anche del suo superamento della fase blues. Il testo, piuttosto esile, fa da sfondo alle evoluzioni strumentali della band, soprattutto nel finale. La chiusura è per Sossity: You’re A Woman, brano che attacca la società del tempo paragonandola a una donna.

Una scelta – vista con gli occhi di oggi ma anche dell’epoca – non proprio felice; la solita filippica di Ian Anderson, musicista sopraffino e animale da palcoscenico ma spesso ostaggio di una retorica reazionaria rara, per fortuna, nel rock. Musicalmente la ballata è ben riuscita e chiude magnificamente un album non del tutto riuscito.

Benefit, come detto, vende bene e permette ai Jethro Tull di sentirsi sempre più liberi di esplorare nuove strade. Un approccio che porterà subito ad Aqualung e Thick As A Brick, i due capolavori del complesso. Se il pubblico apprezza, la critica ci metterà decenni per rivalutare il disco, anche se lo stesso Ian Anderson non lascerà mai trasparire molto amore per Benefit.

E noi cosa ne pensiamo? Benefit è un lavoro di transizione. La band è in stato di grazia e riesce anche in un lavoro non riuscitissimo a piazzare qualche gemma. In generale, però, Benefit suona fin troppo compatto, senza dare forse il giusto risalto ai vari componenti. Perfino il flauto di Anderson rimane lontano quasi sempre dalla luce dei riflettori. Mancano momenti un po’ kitsch come quelli di una Bourée, per dire, ma sono proprio quelli che hanno fatto entrare nel mito i Jethro Tull.

— Onda Musicale

Tags: Eric Clapton, The Beatles, Led Zeppelin, Cream, Fairport Convention
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