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Semiramis, torna la band prog con “La fine non esiste”

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Semiramis

In tempi in cui l’effetto nostalgia è diventato preponderante nella vita di tutti noi, non deve stupire l’uscita di diversi dischi di rock progressivo. E il nome Semiramis è di quelli capaci di stuzzicare la fantasia degli appassionati.

Non capita tutti i giorni di lasciar passare cinquantuno anni tra il primo e il secondo album. Eppure, è quello che è successo alla band di cui parliamo oggi, i Semiramis, appunto. Per farlo, dobbiamo però fare un breve salto sulla nostra macchina del tempo e puntare la bussola ai primi anni Settanta.

Siamo a Roma, esattamente nel 1970, e quattro amici mettono su un gruppo che si chiama Ipotesi di una metamorfosi. Il poker è composto da Maurizio Zarrillo (tastiera), Marcello Reddavide (basso), Memmo Pulvano (batteria) e Maurizio Macos (voce). Manca una chitarra e, quando Macos è costretto ad abbandonare, anche la voce. Arriva così la punta di diamante, Michele Zarrillo.

E sì, non è un caso di omonimia: si tratta proprio del cantautore che farà grandi numeri con pezzi come Cinque Giorni e Una rosa blu. Canzoni di successo, ma ben lontane dal genere degli esordi. Michele è minorenne, come del resto tutta la band, ma canta e suona come un professionista.

Il loro esordio è del 1974 e si intitola Dedicato a Frazz.
La storia è quella di un giovane psicopatico che finirà per suicidarsi, e Frazz è l’acronimo dei cognomi dei componenti. La formazione ha visto un altro avvicendamento: Paolo Faenza ha preso il posto di Pulvano dietro le pelli.

Il disco è un piccolo capolavoro sospeso tra prog anglosassone, atmosfere mediterranee e svisate hard rock, ma all’epoca se ne accorgono in pochi. La band è ritenuta tra le più promettenti, ma si scioglie subito, come spesso capitava nel calderone creativo di quegli anni. Il disco diventa di culto nei decenni a seguire, mentre Michele Zarrillo sfonda in tutt’altro ambito.

Siamo ai giorni nostri; nell’ambito del revival degli anni Settanta, Paolo Faenza decide di ricostituire il gruppo. Aderiscono Maurizio Zarrillo e Giampiero Artegiani, coadiuvati da nuovi musicisti. Zarrillo e Artegiani, purtroppo, vengono a mancare negli ultimi anni ed è solo all’inizio del 2024 che esce finalmente il nuovo album.

Il disco si intitola La fine non esiste ed è uscito per la BTF.
La formazione attuale vede il veterano Faenza a batteria e vibrafono, Ivo Mileto al basso, Emanuele Barco alle chitarre elettriche, Marco Palma alle chitarre acustiche, Giovanni Barco alla voce e Daniele Sorrenti che si occupa di tastiere, organi, synth e flauto traverso.

Già la copertina rimanda ai fasti degli anni Settanta, quando il package degli album era parte integrante di quelle piccole opere d’arte. Basta mettere il nuovo lavoro dei Semiramis sul piatto e subito ci troviamo proiettati negli anni Settanta.

In quel secondo regno attacca con un riff maestoso e prettamente hard rock, tra Deep Purple e Black Sabbath. Subito però l’atmosfera cambia e una serie di botta e risposta tra chitarre e tastiere introducono la parte vocale. La voce di Giovanni Barco è decisa e intonata, ma forse manca un po’ di potenza nei registri più bassi.

Dopo un breve assolo di chitarra, molto tecnico, un tipico cambio di ritmo prog. Le atmosfere si fanno placide e parte uno spoken. Un ulteriore parte di chitarra, più posata e psichedelica, precede il ritorno al tema iniziale che, come da tradizione, chiude il cerchio e il pezzo. Un attacco che ci fa subito capire che i Semiramis hanno trovato la chiave giusta per viaggiare nel tempo.

Una lunghissima intro che alterna passaggi quasi jazz ad atmosfere più placide, ci porta dentro Il cacciatore di ansie. La melodia è quasi da cantautorato pop, con la voce di Barco che a tratti ricorda un po’ timbro e espressività di Renato Zero. Subito però arriva il cambio di ritmo e torna una parte narrata.

La parte centrale è dominata dal pianoforte, prima che il rock riprenda il sopravvento con passaggi tipicamente prog che alternano svisate di chitarra e momenti delicati con piano e vibrafono. Il finale è ancora all’insegna della melodia, con una chitarra che ricorda certi passaggi dei mitici Garybaldi.

Si passa a Donna dalle ali d’acciaio, che parte lenta e acustica. Entra la voce e ci troviamo di fronte a una delicata ballata pop. Ma è solo questione di un paio di minuti e il ritmo torna indiavolato, offrendo il tappeto a una serie di evoluzioni strumentali di tutti i musicisti. Torna la voce in un crescendo che trascina l’ascoltatore in un vorticoso finale.

Siamo a Non chiedere a un Dio, altro pezzo che parte lento ma si trasforma subito, tra sintetizzatori tipici del periodo d’oro e cavalcate di chitarra. La sei corde sembra a volte virare per territori un po’ troppo al limite della fusion, dando una connotazione più contemporanea ai pezzi. Barco qui si scatena, con la voce che si fa più roca e più rock.

La parte centrale offre qui un piacevole intermezzo acustico, con tanto di flauto. Il finale, come da copione, riprende il tema principale, offrendo la luce alla batteria e alla chitarra, oltre a qualche passaggio d’organo che forse meriterebbe ancora più spazio.

Ed è proprio un organo quasi da chiesa ad aprire Tenda Rossa con un’atmosfera lugubre che ricorda un po’ i Metamorfosi. Scatta subito un duello tra i vari strumenti che si risolve a favore di una cavalcata della chitarra elettrica. Solo dopo un paio di minuti parte la voce, col testo che rievoca l’impresa di Nobile e la sua celebre Tenda Rossa del titolo.

La parte centrale è lenta e appannaggio dei sintetizzatori ed evoca le suggestioni del deserto bianco di ghiaccio che fa da sfondo alla storia narrata. Tenda Rossa è forse il passaggio più genuinamente prog e la parte d’organo finale è da brivido, davvero degna delle cose migliori degli anni Settanta. Un brano da applausi.

La chiusura di La fine non esiste dei Semiramis è per Sua maestà il cuore.
Su un tappeto sincopato, la voce di Barco declama una sorta di omaggio al cuore, inteso come organo fisico ma anche come centro delle umane emozioni. La parte centrale è forse la più interessante, con un bellissimo passaggio di pianoforte dalle atmosfere classicheggianti.

Il finale è tutto per la chitarra elettrica di Emanuele Barco, che dà fondo al suo repertorio e chiude da par suo l’album, fatto salvo un breve ritorno della parte cantata.

Che dire di questo lavoro nuovo di zecca dei Semiramis? Prima di tutto, che ci hanno fatto aspettare un bel po’, ma che comunque ne è valsa la pena. Il lavoro scorre via senza annoiare, con pezzi lunghi ma non in modo esagerato e atmosfere che pagano il giusto tributo a quelle di dieci lustri fa, ma suonano comunque calate nel mondo di oggi.

I testi sono ben scritti e offrono un buon numero di suggestioni e riflessioni, pur senza offire un concept vero e proprio. E non è detto che sia un difetto, visto l’abuso della formula che è stato spesso fatto nel genere. Le capacità dei musicisti non sono certo in discussione e basta ascoltare il disco per rendersene conto.

I difetti, se proprio li vogliamo trovare, sono i soliti dei lavori prog contemporanei. Il rischio, infatti, è quello di suonare fuori dal tempo, essendo il genere “finito” – lo mettiamo tra virgolette – da oltre quarant’anni. E allora il pericolo è quello di suonare troppo attuali per i nostalgici, che vorrebbero magari una produzione meno levigata, e troppo datati per i neofiti.

Chi vi scrive queste righe trova il nuovo album dei Semiramis quasi perfetto. Forse avrei preferito un po’ meno passaggi melodici e avrei sacrificato qualcosa nella produzione a favore di un approccio più grezzo e analogico. Ma si entra nel campo scivoloso dei gusti e, al di là di questi, La fine non esiste dei Semiramis è davvero un degno seguito dell’ormai cinquantenne Dedicato a Frazz.

Quel Frazz che abbiamo pensato morto per mezzo secolo e che, invece, è ancora tra noi e pronto a scalciare al ritmo di un redivivo rock progressivo.

— Onda Musicale

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