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Bruce Springsteen e “Born in the U.S.A”. Storie di un’America sull’orlo di una crisi di pace  

Compie quarant’anni l’album più iconico di Bruce Springsteen. Alla riscoperta di un disco epocale. Le canzoni, le storie, le speranze mal riposte del rocker di Freehold. Gli incredibili giorni dell’America sull’orlo di una crisi di pace.

Che senso ha riascoltare oggi questo long playing, denso di istanze democratiche e carico di antimilitarismi? Cosa si prova nell’osservare la grande immagine in copertina con la bandiera a stelle e strisce?

E poi, cercate ancora, aguzzate la vista! Guardate la foto piccola nella copertina interna, quella in bianco e nero che ritrae la E street band al gran completo. Mettete a fuoco, riuscite a leggere la scritta sulla t-shirt di Stevie Van Zandt?

Visto che maglietta?

Crediamo ve ne siate accorti solo oggi. Ma non preoccupatevi. Siete in buona compagnia. Nessuno all’epoca – parliamo di quarant’anni fa – si prese la briga di farvelo notare. Almeno qui in Europa.

Forse non ci faceva piacere che altri parlassero degli affari di casa nostra. D’accordo, gli eventi accadevano in Polonia, dall’altra parte della Cortina di ferro. Ma era comunque un argomento tabù, uno di quelli che oggi qualcuno definirebbe divisivo. Comunque fosse stata la nostra personale visione, vivevamo nella consapevolezza di abitare in un continente imperfetto, in un luogo in cui, il significato della parola Libertà, assumeva un valore diverso se osservato da destra o da sinistra.  

Nel 1984, l’Europa è un fitto reticolato

Spostandosi in orizzontale, ogni 300 km si incontrano confini e barriere. Per percorrere in auto la tratta autostradale Bologna – Monaco di Baviera, occorreva cambiare Scellini e Marchi. I cittadini europei, oltre a parlare decine di idiomi diversi, provano l’un l’altro sentimenti di affettuosa indifferenza.

Dall’altra parte dell’Atlantico è tutta un’altra storia. Gli USA, indipendentemente da chi sia il presidente, sono una terra unita. Il Popolo americano è compatto e coeso. L’America ha vinto la guerra. Una guerra che ha cambiato il corso della Storia e che ha configurato il mondo in cui abitiamo oggi. Agli U.S.A., guardiamo con estremo interesse e con l’illimitato rispetto che si deve ad un liberatore.

Per comprendere l’impatto di Born in the U.S.A dobbiamo fare un salto nell’America anni Ottanta
Ronald Reagan e Jimmy Carter

Gli anni ’80 in America partono dalla presidenza del repubblicano Ronald Reagan, che viene eletto il 20 novembre 1980. Reagan ha superato il democratico Jimmy Carter proprio nelle votazioni a cavallo di decennio. La fine degli anni Settanta, per gli americani, non è stata facilissima. L’Iran ha monopolizzato l’attenzione con la vicenda dell’ambasciata americana: 52 diplomatici Usa sono tenuti in ostaggio.

Da quel giorno, da quel 4 novembre 1979, la Presidenza Carter è in costante imbarazzo, pressata da una copertura mediatica martellante. La fiducia in Carter precipita definitivamente con il fallimento del tentativo di salvataggio degli ostaggi. Nello stesso anno i Sovietici invaderanno l’Afghanistan. La fiducia degli americani nei confronti di Carter crolla.

Gli USA decidono di boicottare le Olimpiadi, che si terranno a Mosca in estate. In pieno autunno, Jimmy Carter perderà le elezioni contro Ronald Reagan. Poche ore dopo il voto negli USA, l’Iran rilascerà tutti gli ostaggi americani, ponendo fine ad una crisi durata 444 giorni.

Sono gli anni in cui l’Unione Sovietica e la NATO, l’alleanza militare che comprende una parte dei paesi occidentali, sono impegnati nelle difficili trattative che solo nel 1987 avrebbero portato al Trattato INF (Intermediate-Range Nuclear Forces Treaty), un accordo che prevede che nessuno dei due paesi può detenere alcuni tipi di missili nucleari.

Al trattato si arrivò dopo reciproci dispiegamenti, tra il 1977 e il 1983, di armamenti nucleari in diversi punti dell’Europa orientale.

Nel 1983 l’Unione Sovietica aveva abbandonato il tavolo delle trattative. Negoziati estenuanti, che ripresero due anni dopo, in risposta al dispiegamento da parte degli Stati Uniti di nuovi missili nucleari.

Nello stesso anno Bruce Springsteen torna in sala d’incisione

Più o meno negli stessi giorni dell’esercitazione della Nato Able Archer 83, quella che stava per essere scambiata da Mosca per un tentativo di attacco nucleare. L’episodio è sempre ricordato come la volta in cui si andò più vicini ad una guerra atomica.

Per la prima volta, anche qui da noi, si sente parlare di “scudo spaziale”, un sistema missilistico basato sui sistemi satellitari statunitensi. Il nuovo piano di difesa USA prende dunque il nome di Star Wars, proprio come il film.

Reagan annuncia agli americani la fine del Comunismo. Lo definisce “un altro triste, bizzarro capitolo della storia umana le cui ultime pagine si stanno scrivendo proprio ora”.

Le sue parole si riveleranno profetiche

Il 10 marzo 1985 muore Konstantin Ustinovich Chernenko. Il giorno successivo, alla guida del Partito Comunista Sovietico viene nominato Mikhail Sergeyevich Gorbaciov. L’URSS è destinata ad una metamorfosi irreversibile, che ne anticiperà la fine.

Per l’amministrazione Reagan e per il mondo intero, il nuovo leader sovietico rappresenta la grande opportunità per dialogare con il nemico di sempre, che potrebbe portare il mondo ad una unità d’intenti come mai si era vista nella storia dell’Umanità. Ma sono discorsi prematuri, le relazioni tra le due superpotenze continuano ad essere freddi, incerti e diffidenti.

Gorbaciov e Reagan

Bruce Springsteen è un affermatissimo esponente del rock americano completamente incentrato su sé stesso e sulle problematiche interne il suo Paese. Nelle sue composizioni non accennano a spegnersi i focolai della guerra in Vietnam. Ha superato da poco la trentina ed è tempo di un primo bilancio della vita.

Pur percependo il clima da recrudescenza da Guerra Fredda, non ha completato il processo di metabolizzazione del passato, anche a livello personale: quella fuga dal servizio militare, oggi gli appare come una diserzione. 

Nel 1968, il diciottenne Bruce Springsteen ha tutte le intenzioni di evitare la leva
i dolori del giovane Springsteen

I suoi sforzi per convincere una commissione del New Jersey, della sua totale inadeguatezza a combattere in Vietnam, si estesero fino a dichiarare di essere gay e di essere dipendente da LSD. Alla fine, evitò il Vietnam per altri motivi. Non superò infatti le visite mediche, a causa dei postumi di una commozione cerebrale subita in un incidente motociclistico occorso l’anno precedente.

Springsteen si sentì inizialmente sollevato ma anni dopo, ammetterà di provare dei grandi sensi di colpa. Nelle pagine del suo libro di memorie Born to Run, si interrogherà su chi fosse andato nel Vietnam al posto suo.

Con un salto temporale di dieci anni arriviamo al 1978

È l’anno di pubblicazione di Born on the Fourth of July (Nato il 4 luglio), la cruda autobiografia di Ron Kovic, nella quale l’autore racconta di essersi arruolato nei Marines come un ragazzo ciecamente innamorato della patria, per poi tornare dal Vietnam paralizzato dalla vita in giù e dedicarsi all’attivismo contro la guerra.

Bruce Springsteen acquista il libro quasi distrattamente, durante uno spostamento in auto, in un drugstore in Arizona. Kovic e Springsteen si incontrano dopo poche settimane, nel relax della piscina del Sunset Marquis, un tranquillo alberghetto nel cuore di West Hollywood, a Los Angeles. Diventano amici, Ron Kovic lo mette in contatto con l’attivista Bobby Muller, cofondatore dell’associazione Vietnam Veterans of America.

Questo caratterizzò una tappa fondamentale per Springsteen e la E Street Band: un concerto di beneficenza per l’associazione dei Veterani del Vietnam. È l’agosto del 1981: gruppi di veterani, molti dei quali disabili, assistono da posti d’onore disposti ai lati del palco. È un momento cruciale per il movimento dei veterani del Vietnam negli Stati Uniti.

Springsteen incontra i veterani al termine dell’esibizione nell’agosto ’81

“Senza Bruce e quella serata non ce l’avremmo fatta”, dichiarerà successivamente Bobby Muller al giornalista Dave Marsh, il quale riporterà la dichiarazione in un libro, dal titolo fortemente evocativo, Glory Days.

Il mese successivo Springsteen inizia a scrivere le canzoni per Nebraska

E butta anche giù qualcosa, chiamata Vietnam. Probabilmente ispirato dall’omonimo classico di protesta di Jimmy Cliff, Springsteen registra un paio di demo, in cui parla di un veterano di ritorno cui viene detto di non essere mai ritornato, di essere morto nel Vietnam.

Alcuni dei testi riappariranno come lato B del singolo Born in the U.S.A. Parliamo di Shut Out the Light, uno dei tanti brani che arricchisce il valore artistico di Bruce Springsteen: il suo legame con il mondo del cinema.

La canzone descrive il ritorno dal Vietnam di un soldato che torna nel suo quartiere, ma non ha il coraggio di andare subito a casa. Si ferma in un bar a bere nell’angolo più buio. La sua donna intanto ha mandato i figli dalla nonna e si fa bella nell’attesa. Lui la sente sdraiarsi accanto sul letto ma non la sfiora nemmeno con un dito: alle 4 del mattino è ancora sveglio, con lo sguardo fisso sul soffitto.

La canzone entrerà nella sceneggiatura de il Cacciatore, per la scena in cui Robert De Niro e Meryl Streep sono sdraiati in camera da letto.

Bruce Springsteen si sta dunque calando nel nuovo album, programmato per il 1984

Un percorso che in realtà è iniziato due anni prima. Sul tavolo di quercia della sua casa di Colts Neck, nel New Jersey, è poggiata una sceneggiatura: si intitola Born in the U.S.A.

Gliel’ha inviata il suo amico regista Paul Schrader. Poco dopo aver scritto Vietnam, Springsteen inizia a prendere in considerazione che il titolo della sceneggiatura del suo amico, potrebbe essere un buon titolo anche per il suo nuovo lavoro. Da quel momento, inizia a trasformare la canzone che aveva in mente.

Springsteen registra Born in the U.S.A. sul suo quattro piste insieme alle altre canzoni di Nebraska, includendola nella cassetta che invia al suo manager Jon Landau. La melodia è ancora grezza e la bassa qualità della registrazione fatta in casa, ne nasconde la bellezza.

Nell’aprile del 1982, Springsteen e la E Street Band sono nello Studio A della Power Station, con l’intenzione di apportare alcune modifiche alle canzoni di Nebraska.

Il secondo giorno, Bruce Springsteen tira fuori dal cilindro una nuova versione di Born in the U.S.A. La esegue accompagnandosi con la chitarra acustica, anziché ricorrere al demo a quattro tracce.

A quel punto, l’evoluzione della melodia si è evoluta in modo definitivo. Viene estratto un motivo di sei note, un riff molto succinto e basico, tuttavia caratteristico ed evocativo.

Una sonorità nuova, ottenuta da Roy Bittan utilizzando lo Yamaha CS-80, un sintetizzatore analogico molto versatile, sulle note del quale Max Weinberg inizia a dare colpi di rullante.

Danny Federici è al piano, Stevie Van Zandt alla chitarra acustica, la E Street band inizia a registrare di buona lena.

Finiranno verso le tre del mattino

Sei ore dopo, Springsteen passa a casa di Weinberg con uno stereo portatile e una cassetta, con il missaggio della canzone fatto da Toby Scott. Il tecnico ha applicato un riverbero gated al rullante di Weinberg, facendolo emergere dal mixage, depurato dalla fangosità di una coda di riverbero prolungato.

Combinato con i microfoni nel soffitto della Power Station, sgorgò un sound martellante, dal drumming preciso e profondo, come una batteria di artiglieria pesante che scarica granate in fondo al Grand Canyon.

Dopo poco, verso le 8 del mattino, si sedettero sul terrazzo a bere arance spremute. E naturalmente ascoltarono Born in the U.S.A. L’ascoltarono per una ventina di volte. Weinberg non dimenticherà mai la sua esecuzione, raramente la batteria assume un ruolo di primo piano, importante quanto quello della voce del cantante.

Diventerà la più grande hit del Boss

Numero due in America il 30 giugno del 1984, primo di una serie da record di sette singoli estratti da Born in the U.S.A che finiranno tutti nella Top 10. Canzone dell’anno per Rolling Stone, che la inserirà anche nell’elenco delle 500 canzoni che costituiscono l’essenza del Rock and Roll.  

4 giugno 1984

Quarant’anni fa, i fans iniziarono ad acquistare il disco proprio oggi. Una volta a casa tolsero via il cellophane. Si accorsero immediatamente che la copertina che tenevano tra le mani sarebbe diventata un’opera d’arte moderna.

La copertina di Born in the U.S.A

Bruce Springsteen è ripreso di schiena, con lo sfondo della bandiera a stelle e strisce. È annoverata fra le icone più distintive di quegli anni. Come il precedente album Nebraska, anche Born in the U.S.A. è una discesa nelle viscere del sogno americano. Parte del pubblico lo percepisce come un inno patriottico in versione rock, scandito da colpi di batteria.

Nel contesto storico che abbiamo pocanzi raffigurato, il repubblicano Ronald Reagan, tenterà di coinvolgere Bruce Springsteen nella propaganda politica per la sua rielezione. La rockstar si rifiuterà. Ma con la stessa inflessibile fermezza, rispedirà al mittente anche la controproposta fatta pervenire dai Democratici.

La foto di copertina è opera di Annie Leibovitz. Springsteen indossa una semplice maglietta bianca e dei comunissimi jeans tenuti su da un cinturone. Dalla tasca posteriore destra, penzola un berretto da baseball, lo sport americano per antonomasia.

La presenza di questa simbologia alimenterà le voci intorno all’interpretazione delle canzoni del disco, facendole percepire come una celebrazione acritica degli Usa, elidendo in questo modo i numerosi aspetti politici presenti nel testo di Born in the U.S.A, e in generale di tutto l’album.

Quasi nessuno invece, si accorse di un dettaglio nella foto interna

Che un sardonico Stevie Van Zandt stesse indossando una maglietta di Solidarność.

Van Zandt era infatti appassionato di politica e in particolare dei movimenti internazionali per la libertà. Solidarność, oltre ad essere stato uno dei più importanti movimenti di lotta per la libertà, era soprattutto un momento di meravigliosa partecipazione collettiva, che vide decine di migliaia di persone sollevarsi per chiedere a gran voce democrazia e libertà per la Polonia soggiogata dal comunismo sovietico.

Alla fine del 1981, in seguito al colpo di Stato del generale Wojciech Jaruzelski, era stata introdotta la legge marziale. All’alba dell’anno successivo, il movimento di Lech Wałęsa conterà circa nove milioni di iscritti.

Nata come piccola organizzazione clandestina, progressivamente diventò un grande movimento di massa, il punto di contatto tra tutte le opposizioni, sia di matrice cattolica che anticomunista, alla repressione del governo centrale. La sua fondazione costituirà un momento decisivo nella storia della Polonia e nell’intero blocco orientale.

Per l’artista e per la Columbia Records, Born in the U.S.A si rivelerà un clamoroso successo. Il vero punto di svolta. Per la prima volta, il giudizio della critica coinciderà con il grande successo commerciale, trasformando il Boss, da star esclusivamente americana, in una superstar nel mondo globalizzato.

Solchi memorabili, ricchi di canzoni intrise di antimilitarismo, quelli che milioni di persone irradiarono dai loro impianti stereo. Oltre a Born in the U.S.A, ballate strabilianti, epiche e rabbiose, intime e romantiche, da Cover Me a Darlington County, Working on the Highway, Downbound Train, la celeberrima I’m on Fire, No Surrender, la travolgente Bobby Jean, l’orecchiabile I’m Goin’ Down, l’eponima Glory Days, la commerciale Dancing in the Dark e la confortante My Hometown – risuonarono dagli stereo dei cittadini di tutto il mondo.

Mentre in Europa le rockstar inseguivano l’onda di un catastrofismo imminente e sfornavano pezzi intrisi di atmosfere crepuscolari da inverno post-atomico, la bandiera a stelle a strisce sventolava bella come il sole, annunciando – senza timore di apparire retorica – che un mondo migliore era finalmente possibile.

Con le due superpotenze riavvicinate, sarebbero diventati risolvibili anche i conflitti legati alle due diverse ideologie. E si sarebbe trovata assai più facilmente una soluzione anche ai conflitti religiosi ed etnici. Forse non ci rendemmo conto che, mai come in quel preciso momento, il mondo fosse veramente sull’orlo della pace.

Anche per questo è sorprendente riscoprire questo disco. È una boccata d’aria pura. Prima di scoprire che, a distanza di quarant’anni, le cose non sono affatto migliorate. Che il Rock’n’Roll da solo non può salvare il mondo ma può spingerci a trovare soluzioni migliori, ispirando pensieri e sentimenti di pace.

Riscoprire il valore della bandiera americana

Non più solo il mero simbolo di imposizioni ideologiche e tecnologiche. Depurata dalle implicazione imperialistiche, la bandiera può diventare altro. Può divenire l’emblema dell’America idealizzata da Springsteen: un vessillo di democrazia e di libertà, colorato di un antimilitarismo invincibile. Un continuo ricorso al dialogo; e anche all’ammissione – come annuncia Springsteen nelle sue canzoni più profonde – di portare dentro di sé, oltre alle stelle e alle strisce, anche tante fragilità e insicurezze.

Un’immagine recente di Springsteen e Paul McCartney in occasione del premio conferito al Boss per il suo “contributo alla diffusione della cultura americana e alla sua influenza su quella europea”.

— Onda Musicale

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