Sotto traccia. Una storia indie contemporanea è la storia della cultura alternativa vista dagli occhi di Hamilton Santià. Un viaggio attraverso quella sottocultura che forse non esiste più o, se preferite una visione più ottimistica delle cose, quella sottocultura che oggi è ancora più nascosta e «sotto traccia» di com’era una volta.
Hamilton Santià è un giornalista e chitarrista della band indie rock The Wends. Torinese, classe 1986, ha un dottorato in Storia del Cinema e scrive per «Sentireascoltare», «Rolling Stone» e «Esquire».
Gli anni Novanta: dal grunge al Brit Pop
Il viaggio di Santià parte dagli anni Novanta e arriva fino ai giorni nostri. Inizia dal grunge – o meglio, dagli ultimi residui del movimento – e si arresta negli anni Dieci del Duemila. Quella che ci racconta l’autore è una storia underground che trova la sua origine nel suicidio di Kurt Cobain, avvenuto ormai trent’anni fa. È in quel momento, ci dice, che si rafforza il rifiuto del potere e del profitto a favore della «logica della “bellezza della sconfitta”», con al centro «una figura più apertamente fragile e problematica». Negli anni Novanta, infatti, si combattevano le guerre ma non si vincevano mai. Nonostante questo, la musica e la cultura alternativa creavano un forte senso di appartenenza a una comunità unita da valori e passioni che i giovani pensavano sarebbero stati eterni.
Le parole di Santià, con tono ironico e disilluso, descrivono con precisione un’epoca vissuta in prima persona e ora analizzata con la giusta maturità e distanza. Dal grunge, ci spiega, deriva anche la nascita del Brit Pop. Da qui si sposta in Inghilterra per analizzare l’influenza del grunge e dell’indie americano sull’arte britannica. Dai registi come Danny Boyle e Michael Winterbottom, alla letteratura di Irvine Welsh, Jonathan Coe, Nick Hornby, alla band più influente di quel periodo: gli Oasis.
Gli Oasis sono stati l’ultima band nel senso classico del termine, l’ultima che ha usato il rock’n’roll per raccontare una storia collettiva: usciamo dagli anni Ottanta, siamo giovani, mediamente carini e decisamente incazzati. Dio è morto, Kurt Cobain è morto, Marx è morto, l’Inghilterra non si sente tanto bene e forse abbiamo bisogno di fare qualcosa di diverso, di vivere in modo diverso, di crederci qualcosa di diverso.”
La fine del vecchio millennio
Altra artista degna di una breve menzione è sicuramente la famosa anticonformista Polly Jean Harvey, e – ancora – i Radiohead, che cantano di un’inadeguatezza massimamente condivisa e di un’alienazione consumistica che genera perlopiù rassegnazione.
Tutti questi artisti, e la corrente indie di fine millennio, hanno in comune una caratteristica che si percepisce anche nelle produzioni cinematografiche: una cocente ironia. L’autore cita numerosi film, da Essi vivono a Giovani, carini e disoccupati a Pulp Fiction, con cui Tarantino distrugge tutte le regole del cinema e si erge a regista alternativo.
Si arriva così agli albori del nuovo millennio, che i Radiohead anticipano con il loro capolavoro Ok Computer. Il sentimento dominante, ci dice Santià, alla fine degli anni Novanta è la paura. Paura della fine, paura dell’avanzamento della tecnologia e degli effetti del capitalismo sul futuro. Tutto questo, in Italia, arriva con band come C.S.I.-Consorzio Suonatori Indipendenti, Modena City Ramblers, Afterhours, Marlene Kuntz, Subsonica. Nell’universo cinematografico invece abbiamo Matrix, grande contenitore culturale di temi che chiudono il vecchio millennio e introducono il nuovo. Anche Fight Club si colloca tra i due millenni, e col suo tono sarcastico mostra una visione ancora più pessimistica della società nascente.
Gli anni Duemila: ancora più «sotto traccia»
Nel nuovo millennio ci aspetta un rock che non si prende troppo sul serio e due evoluzioni tecnologiche che sanciscono la fine dell’industria discografica dell’epoca: l’avvento del formato mp3 e Napster, un programma per scambiarsi le canzoni senza pagarle. Nel frattempo, mentre due album – Lateralus dei Tool e Toxicity dei System of a Down – «rompono la quiete del discorso pop» e stravolgono un genere passando «da musica per persone emarginate a fenomeno da milioni di copie», il Brit Pop ritorna identico a sé stesso con band come Snow Patrol, Stereophonics, Starsailor, Muse e Coldplay.
Ora su MTV si alternano video di Mariah Carey e dei Blink-182, inizia ad affermarsi il concetto di musica spettacolare, con video sontuosi che distraggono dalla fruizione del messaggio, e il capitalismo si rafforza. Ma anche se quell’autenticità, quel modo alternativo di stare nel mondo, sono defunti, c’è senz’altro uno spiraglio a cui gli affezionati possono ancora aggrapparsi. Ci sono gli Strokes, ci sono blog, forum, riviste e webzine, ci sono concerti e festival, punti di riferimento per la cultura alternativa. E ci sono film che rappresentano alla perfezione lo spaesamento dei Millennials (I Tenenbaum, Lost in Translation, Frances Ha).
Il Teatro degli Orrori e Le Luci Della Centrale Elettrica sono gli artisti che, in Italia, incarnano al meglio i sentimenti del periodo: paura, alienazione, inadeguatezza, le stesse angosce dei Millennials, una sorta di «linguaggio generazionale», dice Santià, che diventa «epicentro di un sentimento collettivo». E poi arriva Amy Winehouse, un faro di speranza trasgressiva in un mondo ormai terrorizzato dall’anticonformismo. In un mondo in cui l’indie perde la sua identità originaria perché ormai incasellato in un sistema di generi destinati a vendere milioni di copie.
Cosa è rimasto della cultura alternativa?
«Chi sono i giusti?» si chiede Santià. Quali sono le band che ora possono definirsi davvero sincere, non interessate allo stile, alla fama ma soltanto alla musica? Non c’è una risposta, ci sono solo quegli artisti che lo ispirano ancora, come i Cloud Nothings, Bon Iver e i The National.
Quando è morto Cobain abbiamo avuto la sensazione di aver perso l’ultimo messia, l’ultimo portatore di un messaggio capace di redimerci e che, invece, è morto non per assolverci dai nostri peccati, ma prendendosi il fardello di tuttə noi. Cobain è morto non riuscendo però a costruire nulla e, anzi, dichiarando palese la sconfitta. […] Il mondo là fuori, parafrasando gli Smiths, non è all’ascolto, e anzi di quello che passa alla radio se ne frega abbastanza, cercando solo un allegro ritornello, un tormentone o qualcosa da canticchiare.”
La musica non è importante per la maggior parte delle persone. Secondo lo psicologo della musica John Sloboda solo il due per cento della gente nel mondo ascolta la musica con attenzione e concentrazione. Così Santià chiude il suo saggio, con una rassegnazione che però non cancella il fatto che «la musica sia un linguaggio universale capace di travalicare ogni confine» e di metterci in contatto con le altre persone per condividere qualcosa che per noi se non altro è importante.
Quello che ci ha sempre fregato è il romanticismo. Soprattutto, ci ha fregato pensare che la musica potesse cambiare la storia del mondo.”
Sotto Traccia copre trent’anni di storia, cultura e politica che si intrecciano alla vita dell’autore scivolando leggeri come uno dei film citati. Leggeri grazie alla penna esperta di Santià, non certo per le tematiche, che sono invece sviscerate con un’ironia amara e una disillusione condivise – mi azzardo ad affermare – da tutti noi Millennials che abbiamo creduto, un tempo lontano, che la musica potessi salvarci e salvare il mondo.