No Reason to Cry di Eric Clapton esce nel 1976 ed è un album che segna un capitolo interessante nella sua carriera. Intriso di collaborazioni e contaminazioni, nel disco il chitarrista sembra allontanarsi ancora una volta dall’etichetta di “guitar god” per esplorare nuovi orizzonti sonori.
Quando No Reason to Cry esce, siamo nella seconda metà degli anni Settanta, e Clapton è ormai un artista affermato che ha già giocato tutte le carte del rock, del blues e del soul. Con questo disco, si cimenta in un dialogo musicale più intimo, accompagnato da una band d’eccezione e da influenze che spaziano dal folk al country, passando per il blues più radicato.
Clapton si trova al Village Recorder di Los Angeles, dove non è solo: tra i musicisti ci sono nomi come Rick Danko e Richard Manuel della Band, con cui aveva instaurato una collaborazione durante il tour del 1974, e Bob Dylan, il cui contributo aggiunge una punta di folk e mistero all’album. La presenza della Band non è casuale: Clapton voleva creare un album dal suono caldo e familiare, quasi un ritrovo tra amici più che una produzione meticolosa. Questa sensazione pervade ogni traccia di No Reason to Cry, un disco in cui Clapton si presenta come cantautore più che come il virtuoso di Layla o di Crossroads.
Il viaggio inizia con “Beautiful Thing”: un brano firmato da Rick Danko e Richard Manuel, che riesce a trasmettere un’atmosfera malinconica e rassicurante al tempo stesso. La voce di Clapton è più morbida che mai, accompagnata da cori che richiamano le armonie del country rock. È un’apertura lenta, senza fronzoli, ma che pone immediatamente l’accento sull’essenza di questo album: qui non ci sono assoli travolgenti, ma un’intimità che invita l’ascoltatore a entrare nel mondo personale di Clapton.
“Carnival” porta una svolta inaspettata: è un brano più vivace, con un riff blues accattivante, che però non sfocia mai nell’esuberanza. Clapton canta quasi distrattamente, come se fosse più interessato a creare un groove che a impressionare. La leggerezza di “Carnival” riflette l’anima dell’album, che sembra più focalizzato sulla creazione di un’atmosfera rilassata che sull’ostentazione tecnica.
Con “Sign Language”, siamo davanti a una piccola perla folk-blues scritta insieme a Bob Dylan. La voce inconfondibile di Dylan si mescola perfettamente con quella di Clapton, creando un effetto quasi ipnotico. “Sign Language” è una canzone criptica, tipicamente dylaniana, dove le parole sembrano nascondere verità non dette. Qui Clapton sembra aver trovato il modo perfetto per esprimersi senza troppi orpelli.
Non poteva mancare il blues, ovviamente. Clapton sceglie un pezzo di Alfred Fields, “County Jail”, e lo interpreta con quella grinta rilassata che ha sempre caratterizzato i suoi lavori più blues. Il riff centrale è un omaggio ai classici, e Clapton sembra divertirsi, quasi come se stesse riscoprendo le radici. È uno dei momenti in cui No Reason to Cry richiama il vecchio Clapton, ma senza eccedere.
Chiude il lato A “All Our Past Times”, scritto insieme a Rick Danko. È una ballata nostalgica, in cui Clapton riflette sui tempi andati, sul passato che ci portiamo dietro. Il brano è malinconico ma rassicurante, e ancora una volta si nota la mano della Band, che arricchisce il pezzo di sfumature country. Questa è una canzone in cui Clapton sembra lasciare andare i suoi ricordi, come un diario personale messo in musica.
Giriamo il disco, come si faceva una volta, e ci immergiamo subito nel lato B. La seconda facciata ci riserverà un affondo blues o proseguirà nel tono compassato del nuovo Clapton? Un po’ e un po’, amici. Del resto, la caratteristica del Clapton post ’74 è sempre stata quella di voler stare col piede in più staffe.
“Hello Old Friend” apre il lato B con un tocco di positività, come una lettera a un vecchio amico. È una delle tracce più solari del disco, con una melodia che richiama i bei tempi del folk rock. Clapton sembra volerci dire che, nonostante tutto, c’è sempre spazio per la gioia semplice e sincera.
“Double Trouble” è una dichiarazione d’amore per il blues, scritta da Otis Rush. È qui che Clapton mostra il suo lato blues nella forma più pura. Double Trouble è uno di quei brani che sembrano fatti su misura per lui. Clapton non esagera con virtuosismi, ma lascia che la sua chitarra parli, con quel tocco che sembra conoscere ogni dolore. Il risultato è un’interpretazione toccante, un omaggio rispettoso a uno dei grandi maestri del blues.
“Innocent Times”, scritto insieme a Marcy Levy, è un brano delicato e introspettivo. Levy non è solo una collaboratrice, ma anche una delle coriste principali del disco, e la sua voce si intreccia a quella di Clapton in un duetto che sembra raccontare di speranze e rimpianti. Clapton qui è quasi irriconoscibile, mostrando una vulnerabilità che raramente ha condiviso in passato.
“Hungry” cambia ancora il tono dell’album, con un groove più deciso e una linea di basso prominente. È una traccia che sembra strizzare l’occhio al rock sudista, con un tocco di funk grazie a Levy e Dicky Simms. “Hungry” è come un inno alla perseveranza, una fame di vita che si sente in ogni battito.
A chiudere l’album c’è “Black Summer Rain”, un brano intimo e meditativo. La canzone ha un’atmosfera quasi malinconica, come se Clapton stesse riflettendo sugli anni che passano. La sua voce è delicata, e la chitarra acustica accompagna dolcemente, creando un contrasto con i brani precedenti. “Black Summer Rain” è come un addio, un saluto al passato e al presente, e chiude il disco lasciando un senso di quieta rassegnazione.
No Reason to Cry non è un album per chi cerca l’energia esplosiva di Layla and Other Assorted Love Songs, il blues ortodosso dei primi tempi con Mayall o quello virato all’hard dei Cream. È un lavoro diverso, quasi riflessivo, dove Clapton esplora un territorio meno definito, più umano e vulnerabile. Invece di mostrare la sua virtuosità, Clapton preferisce immergersi in atmosfere intime e personali, lasciando che siano le canzoni a raccontare la sua storia.
No Reason to Cry rappresenta forse un momento di transizione, un rifugio temporaneo dove Clapton si prende una pausa dall’essere una star per suonare semplicemente la musica che ama, insieme a vecchi amici. Non è un disco di hit, ma ha un’anima. E, per chi riesce a cogliere questa dimensione intima, diventa una testimonianza preziosa di un artista che continua a cercare nuove strade.