The Great Escape dei Blur, uscito nel settembre del 1995, rappresenta uno dei momenti più alti e complessi dell’epoca Britpop.
A metà degli anni ’90, quando The Great Escape viene dato alle stampe, il Regno Unito era nel pieno di un’ondata musicale e culturale che esaltava le identità britanniche, dando origine a una vera e propria guerra musicale tra i Blur e gli Oasis. Se gli Oasis incarnavano l’energia grezza e irriverente della classe operaia, i Blur rappresentavano un mondo più sfaccettato, urbano e ironico, con uno sguardo che a volte sfiorava il disincanto.
The Great Escape non è solo una raccolta di canzoni: è un’istantanea della società britannica, vista attraverso gli occhi acuti e spesso cinici di Damon Albarn.
Questo album arriva sulla scia del successo di Parklife, un disco che aveva consacrato i Blur come i narratori della vita quotidiana londinese, capaci di esplorare le piccole manie e le contraddizioni di una metropoli in fermento. Tuttavia, con The Great Escape, la band si spinge oltre, sia nei temi sia nell’approccio sonoro, regalando ai fan un’opera ambiziosa e stratificata, più cupa e riflessiva rispetto al tono scanzonato e a tratti ottimistico del lavoro precedente.
C’è chi lo ha definito il lato oscuro di Parklife, un’opera che esplora l’alienazione e l’insoddisfazione che si nascondono dietro la facciata di benessere della società borghese.
L’uscita di questo album coincide con l’apice della cosiddetta “Battle of Britpop”, che vede Blur e Oasis contendersi il primato nelle classifiche e nelle preferenze del pubblico britannico. È un momento epocale, in cui entrambi i gruppi si fanno portavoce di due visioni del mondo molto diverse, rendendo il Britpop una battaglia non solo musicale, ma anche sociale e culturale.
Se gli Oasis offrono un sound diretto e anthemico che parla alla working class, i Blur propongono un’analisi quasi sociologica, con testi che esplorano le sfaccettature e le contraddizioni della società contemporanea. The Great Escape non è solo un album Britpop: è un viaggio ironico e a tratti amaro nella complessità del vivere moderno, intriso di sarcasmo e disillusione.
Di solito, a questo punto, mettiamo il disco sul piatto per ascoltarlo. Visto però il periodo degli anni ’90, stavolta prendiamo il CD e lo infiliamo nel lettore.
L’album si apre con Stereotypes, un brano che è puro sarcasmo. La chitarra di Graham Coxon esplode in riff taglienti e nervosi, mentre Albarn esplora i temi dell’infedeltà e dell’insoddisfazione matrimoniale con il suo tipico tono quasi scanzonato. È una sorta di manifesto del cinismo che pervade l’intero disco, mettendo in luce la vena satirica e critico-sociale della band.
Fantastica la capacità dei Blur di trovare ganci melodici tipicamente british ma che, al tempo stesso, appaiono originali e mai sentiti.
Country House è stato il singolo simbolo della “battaglia del Britpop” con gli Oasis, con il suo inno pop e un ritornello contagioso. La canzone è una caricatura dell’alta società britannica: Albarn racconta la storia di un uomo ricco che fugge dalla frenesia cittadina per vivere in una villa di campagna. Nonostante l’atmosfera allegra e il ritmo leggero, il brano maschera una riflessione amara sulla superficialità e il vuoto della vita privilegiata.
Una sorta di Common People dei Pulp rovesciata, ma che alla fine giunge alle stesse conclusioni. Anche qui, la capacità di unire Kinks, Beatles e una personalità propria inconfondibile è degna di nota.
Con Best Days si cambia tono. Si tratta di uno dei pezzi più nostalgici e malinconici dell’album. La voce di Albarn diventa più pacata, sostenuta da una melodia dolce e sognante. È una canzone riflessiva, che parla del rimpianto e della ricerca di un significato, rivelando il lato più introspettivo e meno sarcastico della band. Notevole il ritornello, quasi lennoniano.
Si prosegue con un altro pezzo al limite del satirico di Albarn, Charmless Man. La canzone racconta di un uomo superficiale e privo di empatia, che vive secondo gli standard imposti dalla società. La melodia è frizzante e orecchiabile, ma il testo è pieno di critiche feroci. Questa canzone rappresenta uno dei momenti più sarcastici del disco, con Albarn che esamina il vuoto dietro le apparenze sociali.
Da notare il grande lavoro alla chitarra di Graham Coxon per tutta la durata del pezzo. Spesso schiacciato dalla personalità di Albarn, Coxon è un chitarrista coi fiocchi, capace di far sue tutte le influenze degli anni ’80 e ’90.
Fade Away è un pezzo che esplora il tema dell’alienazione. Con un ritmo più sperimentale e un’atmosfera quasi psichedelica, il brano trasmette un senso di inquietudine e angoscia. I Blur qui sembrano allontanarsi dalle strutture pop per avventurarsi in sonorità che riflettono un crescente disagio. Di certo, non siamo davanti a uno dei pezzi forti di The Great Escape.
In Top Man, i Blur continuano la loro analisi sociale, prendendo di mira la figura dell’uomo d’affari di successo. Il brano è giocoso e ironico, ma dietro le sonorità allegre si nasconde una critica al consumismo e alla superficialità della società moderna. L’andamento ricorda un po’ Charmless Man, ma con una strumentazione quasi da western.
The Universal è forse il brano più amato dell’album assieme a Country House. La sua melodia grandiosa e orchestrale, combinata con il testo poetico, crea un’atmosfera unica. Qui, Albarn riflette sull’universalità delle emozioni umane, riuscendo a raggiungere un equilibrio tra cinismo e speranza. È uno dei picchi emozionali del disco, che si distingue per la sua bellezza quasi cinematografica.
E, a questo proposito, una bella spinta nell’immaginario collettivo la dà anche il video, vagamente ispirato ad Arancia Meccanica, l’insuperabile capolavoro di Kubrick.
Il disco va avanti con Mr. Robinson’s Quango. Questo pezzo è una critica pungente alla politica e alla burocrazia britannica. La canzone è vivace, ma le parole di Albarn sono taglienti. Con un ritmo veloce e una struttura quasi caotica, i Blur trasmettono un senso di frustrazione verso i meccanismi di potere.
He Thought of Cars è uno dei brani più cupi e introspettivi dell’album. La voce di Albarn è soffusa, quasi malinconica, e la musica riflette un senso di isolamento e incertezza. Questa canzone rappresenta uno dei momenti più intensi del disco, con i Blur che esplorano temi di perdita e alienazione.
Con It Could Be You si torna ad alleggerire, un brano leggero e ritmato che rappresenta una pausa dall’introspezione dei pezzi precedenti. Tuttavia, anche qui i Blur non rinunciano alla loro cifra, affrontando il tema del successo e dell’ambizione nella società moderna.
Ernold Same è una traccia breve ma significativa. Albarn racconta la vita monotona e ripetitiva di un uomo comune, con un tono quasi compassionevole. Il brano è semplice, ma la sua efficacia sta nella capacità di evocare un senso di noia e conformismo. La voce iniziale, quella parlata, è di Ken Livingstone, noto esponente politico dei Laburisti.
Con Globe Alone si ritorna alla velocità e all’energia. La canzone è un attacco alla cultura dell’individualismo e dell’egoismo, con chitarre frenetiche e un ritmo incalzante. È uno dei pezzi più potenti dell’album, che mette in evidenza l’insofferenza della band per certi aspetti della società contemporanea.
Dan Abnormal è un autoritratto ironico di Albarn stesso, tanto che il titolo è l’anagramma del suo nome. Con un testo giocoso e una melodia energica, la canzone rappresenta una delle tracce più bizzarre e divertenti dell’album. È un momento di autoironia che mostra il lato più leggero e auto-riflessivo della band.
Entertain Me è una critica al desiderio incessante di distrazione e intrattenimento della società moderna. E pensare che all’epoca social e smartphone erano ben al di là da venire. Il ritmo ipnotico e il testo ripetitivo riflettono la superficialità del bisogno di essere costantemente intrattenuti.
L’album si chiude con “Yuko and Hiro“, una ballata malinconica che parla di due lavoratori giapponesi che vivono una vita alienante. La canzone ha un’atmosfera quasi cinematografica, con sonorità delicate e un testo poetico. È un finale triste e riflessivo che rappresenta la solitudine e l’alienazione tipiche del mondo moderno.
Alla fine del pezzo, dopo una breve pausa, c’è una piccola reprise di Ernold Same. Una piccola ghost track che nulla aggiunge al lavoro.
The Great Escape è un album denso, complesso e a tratti anche inquietante. La battaglia del Britpop con gli Oasis la perde, vendendo meno di (What’s the Story) Morning Glory? I Blur si rifanno coi singoli, dove almeno all’inizio prevalgono. Soprattutto, però, a privare dello status di capolavoro The Great Escape è forse l’eccessiva lunghezza e un pugno di brani, nella seconda parte, un po’ sovraccarichi a livello di sound.
The Great Escape resta una testimonianza brillante della capacità dei Blur di osservare il mondo con uno sguardo critico e sarcastico. Non sappiamo se sia il loro miglior album, forse è quello più conosciuto, ma è comunque un’opera che merita di essere ascoltata, anche se forse non è invecchiata benissimo. Diverso il discorso di Albarn che, a differenza dei rivali Gallagher, inizia da qui una crescita fenomenale.
A tutt’oggi, il buon Damon, che sia coi compagni di un tempo o nella sua emanazione Gorillaz o ancora da solo, resta un personaggio che ha sempre pronto un bel coniglio da tirare fuori dal cilindro.