3. CCCP, Affinità-divergenze fra il compagno Togliatti e noi – Del conseguimento della maggiore età (1986)
Il tour della reunion, tra la trollata e la dissacrazione, ha dimostrato che i CCCP continuano a essere il nervo scoperto della musica di questo paese. Quando esce il disco, il punk all’italiana pare una contraddizione in termini, un vicolo cieco in cui si dovrebbero schiantare le velleità di un gruppo troppo strano per esistere nella patria del bel canto. E però eccoci qui, oggi, a urlare fino a far bruciare i polmoni l’unica definizione possibile di punk: fedeli alla linea, la linea non c’è. E in una sequenza di chitarre-motosega, vocalità sbilenche e testi ironici/paranoici, ogni persona che si sente ai margini ritrova una ritrovata centralità esistenziale. E la cosa assurda è che quarant’anni dopo quella stessa irrequietezza sembra perfettamente sincronizzata con la nostra contemporaneità. Produci, consuma, crepa.
2. Marlene Kuntz, Catartica (1994)
Trent’anni fa un Cristiano Godano particolarmente avvelenato cantava senza giri di parole che cosa volesse dire non avere un posto nel mondo: «Complimenti per la festa, una festa del cazzo». Catartica non è soltanto il disco d’esordio dei Marlene Kuntz, è la narrazione insolita e fuori dai denti di un nichilismo senza tempo e senza età: i Sonic Youth e Nick Cave, le dissonanze e la melodia, ogni sbalzo d’umore segue pedissequamente le vibrazioni elettriche di un suono inaudito, che fa pensare che esiste davvero una via italiana al rock. Brani come Festa Mesta, Nuotando Nell’Aria, Sonica, Canzone Di Domani sono ancora oggi stretta quotidianità per tantissime persone. E nel momento in cui la musica si trasforma in coltelli che volano e aria che brucia, con Godano e Riccardo Tesio intenti a creare il caos con le loro chitarre storte e attaccabrighe, il batterista Luca Bergia, scomparso prematuramente nel 2023, è dietro i tamburi che non segue il maremoto, ma lo provoca.
1. Afterhours, Hai Paura Del Buio? (1997)
Il primo verso cantato da Manuel Agnelli è una bestemmia, un’imprecazione scandita con una vocalità sottile, quasi bambinesca, come se fosse filtrata dall’elio. Dà un effetto destabilizzante, metà innocenza e metà impertinenza: un avviso di guai in vista. Gli Afterhours inaugurano il disco della loro vita – letteralmente – prendendo a calci la buona creanza e anche i salamelecchi del rock alternativo: si parte con una chitarra acusticanma suonata come se ogni plettrata scavasse nella carne viva di chi canta, e poi si prosegue con un flusso di grunge, hardcore, post rock, cantautorato, rumorismo, pop. Soprattutto c’è il racconto di una Milano spietata e in ebollizione, una città non ancora hipster, ma già affamata di presenzialismo e design a tutti i costi. E Agnelli, che l’anno prima ha mollato il lavoro per vivere di musica senza che la musica gli garantisse null’altro che frustrazioni, è lì che ringhia.
(fonte: scritto da Manfredi Lamartina – link)