Prima dell’attesissimo A Complete Unknown, arrivò al cinema una versione filmica del cantautore. Anzi, sei. E tutte indimenticabili.
Bob Dylan è già stato qui. Al cinema, nel cinema: come storia, come materia viva, personaggio. Lo ha fatto almeno un’altra volta, anzi sei: a pochi giorni dall’uscita di A Complete Unknown, quando daremo una forma all’hype, ci accomoderemo in sala a guardare mister Robert Zimmerman con le fattezze di Timothée Chalamet e scopriremo how does it feel, vale la pena ridare uno sguardo a quella pietra miliare che diciotto anni fa portò Bob Dylan sullo schermo. A Io non sono qui varrebbe la pena in realtà dare uno sguardo sempre, anche senza appuntamenti, anche senza una giustificazione.
I’m not there arrivò nel 2007 come una meteora mai apparsa prima. Di lì a pochi mesi Bob Dylan avrebbe vinto il Premio Pulitzer, mancavano nove anni al Premio Nobel per la letteratura. Il cinema? Aveva vinto il Premio Oscar alla migliore canzone sei anni prima. Ma il film visionario e multiforme concepito da Todd Haynes non aveva a che fare con i riconoscimenti. Aveva viceversa a che fare con l’irriconoscibilità. Con un lunghissimo e riuscito nascondino. Con l’uno e molti.
Non era un biopic nel senso più tradizionale nel termine. Non era nemmeno un’opera simbolista e gratuitamente divergente: per come si presentava era chiaro solo quello che non era. Ovvero, tutto quello che c’era sempre stato.
Stile, scelte, esplorazioni: il Bob Dylan di Todd Haynes
Quarantacinque anni di carriera e di vita (fino ad allora), di incontri, di stili, fasi e reinvenzioni: troppo da dire, per un solo Bob Dylan. Che diventò sei personaggi diversi, di età diverse. Finché Bob Dylan non fu praticamente mai nominato: tra pseudonimi credibili, differenti declinazioni e molteplici anime, compariva realmente soltanto nel finale, in un footage di repertorio. Come a dire: io non sono qui, in quello che avete visto, ma alla fine arrivo. Ci sono sempre stato.
Sei personaggi, tutti lui, tutti altro da lui: «Poeta. profeta. Fuorilegge. Imbroglione. Star di elettricità». Queste le forme dell’artista maturo. Ma si cominciava da un undicenne afroamericano, da quell’anima giovane e sfrontata che ama (e vorrebbe essere, ed è) Woody Guthrie, la cui velleità da menestrello viaggia su carri merci fuori tempo.
Poi un cast da impazzire: Christian Bale (che ritrovava Haynes a nove anni da Velvet Goldmine) nei panni Jack Rollins, alter-ego dylaniano degli anni di The Freewheelin’ Bob Dylan e The Times They Are a-Changing. Heath Ledger, ad interpretare l’attore che interpreta Jack Rollins in un biopic su di lui, matrioska di interpretazioni delle interpretazioni, di maschere della maschera. Una superlativa Cate Blanchett a fare Jude Quinn, traslitterazione della contestatissima svolta elettrica dal folk acustico: a ritirare la Coppa Volpi a Venezia per l’attrice australiana fu Heath Ledger, una delle sue ultime uscite a pochi mesi dalla scomparsa. Richard Gere come il fuorilegge Billy the Kid, a evocare l’escursione cinematografica del cantautore per Sam Peckinpah, l’omerico ritorno al luogo di origine che si chiama Enigma, la riconversione con una identità consumata in una fuga perenne. E ancora Ben Whishaw, l’Arthur Rimbaud come ispirazione giovanile, poeta simbolista e anima citazionista sotto investigazione.
Ma anche un parterre di personaggi secondari, compagni di viaggio da far tremare i polsi: Charlotte Gainsbourg, tormentata e dolcissima moglie ispirata a Suze Rotolo. Michelle Williams, modella che alludeva a Edie Sedgwick. Julianne Moore, trasposizione di Joan Baez. Bruce Greenwood, che incarnava la ferocia della critica, nonché il bersagliato Mr Jones di Ballad of a Thin Man.
I’m Not There: il Bob Dylan che non c’era, oppure sì
«Anche il fantasma era più dell’uomo», proferiva la voce fuori campo all’inizio del film, ed era la dichiarazione d’intenti di un’allegoria senza sosta, passando dagli stratagemmi del mockumentary a quelli dell’elegia, di un lavoro ambizioso in cui forma e sostanza furono la stessa cosa. «Nei cinquant’anni di sua lunga percorrenza nel mondo della musica e della poesia, Bob Dylan ha fatto del suo meglio per non raccontarci mai esattamente quello che ha combinato nella vita», ha detto Ernesto Assante a proposito del film. «Sappiamo dove è nato, sappiamo qualcosa che gli è capitato in quel curioso pezzo di vita in cui non si è manifestato come Bob Dylan ma era ancora Robert Zimmerman. Ha avuto infiniti nomi. Ma alla fine la domanda che ci poniamo è: perché dovremmo davvero sapere chi è Bob Dylan?»
A complete unknown, per l’appunto. E i personaggi di I’m not there sfuggivano benissimo agli interrogativi, restando allo stesso tempo consistenti e indimenticabili, come tracce, indizi, fantasie. O come ricordi, ad esempio nel montaggio strappacuore sulle note di I want you: in scena Charlotte Gainsbourg e Heath Ledger, amplessi, corse a perdifiato, pittura e motociclette ingolfate.
L’unicità di I’m not there stava pure in questo, in un’iconografia abbagliante, in tempi clamorosi e misurati al centesimo (o al centimetro). Un’opera in cui ogni parola non andasse sprecata. Da pazzi solo a pensarla, figurarsi a immaginarla confrontarsi sulla lunga distanza. Un lavoro senza precedenti e senza riferimenti, perché su un solo riferimento. Fino a diventare esso stesso riferimento.
Io non sono qui resta un film unico
Film su Bob Dylan senza Bob Dylan, disseminato di possibilità e travestimenti, di visioni e sfocature, I’m not there era come è la vita: la sua, che per certi versi (e grazie ai suoi versi) non è mai stata davvero sua. Senza trascurare mai il trait d’union con la storia americana, sempre spaventosamente connessa e mai silenziosa: come la frase che vorrebbe chiuderlo tracciandone un consuntivo «è come avere ieri oggi e domani tutti nella stessa stanza». Linee narrative molteplici, molteplici finali tutti buoni al momento di tirare le fila, ma che forse nel loro monumentale carico emotivo e etico erano già tutti nell’inizio. Un film che andava in talmente tante direzioni diverse da non andare mai a smarrirsi, incredibile nella sua coesione interna, nell’anima sempre a fuoco. Nel senso più letterale (e letterario) del termine: un’opera alla cui bellezza non si riesce ancora a credere. Una ininterrotta canzone di centotrentacinque minuti, che non è finita mai.
(articolo scritto da Ezio Azzollini – link)