Il batterista dei Pink Floyd Nick Mason presenta la riedizione del film «Live at Pompei» girato nel 1972 che torna al cinema restaurato.
Roger Waters suona imperioso un gong, uno smilzo David Gilmour troneggia con la chitarra nell’anfiteatro, Richard Wright è quasi sospeso alle tastiere tra maschere ghignanti. E lui, Nick Mason, con dei baffi alla Dennis Hopper e una zazzera lunghissima, tiene il tempo. Istantanee eterne da quel capolavoro dei Pink Floyd che è «Live At Pompei», splendido film del 1972, girato tra le rovine. Che ora viene restaurato e torna nei cinema, dal 24 al 30 aprile: vi sarà anche un album live dal 2 maggio.
«Manco mi ricordavo di avere i capelli cosi lunghi. È bello rivedersi da giovani». Aveva 28 anni allora, ma anche ora che ne ha 81, Nick Mason è sempre gioviale, arguto, l’unico tra i superstiti sempre in lite, Waters e Gilmour, che non si è mai fatto travolgere dall’emotività legata a una così grande storia. Che qui, in breve, ripercorre, tra Syd Barrett e i Beatles, tra reunion impossibili e memorie per i posteri.

Come nacque Live at Pompei?
«Non fu una nostra idea ma del regista Adrian Maben. Fummo catapultati in Italia e fu una sorpresa: anche perché suonammo per i fantasmi…».
Ovvero?
«Nell’anfiteatro di Pompei non c’era nessuno. Ma suonare senza pubblico creò un’atmosfera incredibile, con la polvere, l’afa, le luci».
Avete sempre amato suonare in posti incredibili da noi, vedi il leggendario concerto di Venezia nel 1987.
«Divertente, ma complesso, con tutte le polemiche sul fatto che avremmo danneggiato i palazzi. Non lo rifarei. Preferisco ricordare la magica atmosfera di Pompei».
Da Pompei a «Wish You Were Here»: quest’anno è il cinquantesimo anniversario dell’album…
«Uno dei più difficili che abbiamo realizzato. Ma è un disco che amo più di “Dark Side of the Moon”, è molto più rilassato».
Un disco per Syd Barrett, il vostro cantante che vi aveva lasciato sette anni prima.
«Non lo concepimmo così da subito, man mano che ci lavoravamo divenne per lui. Soprattutto quando venne in studio a trovarci: lo trasformò».
Già, non lo vedevate dall’addio alla band…
«Fu sorprendente la sua visita agli studi, non lo riconobbi, la testa rasata, sovrappeso, una cosa disturbante».
Ma, a vent’anni dalla sua morte, c’è qualcosa per cui vi rimproverate?
«È semplice dirlo dopo, allora ne sapevamo poco e ancora oggi non so quale fosse esattamente il problema. In tanti dicono che fosse impazzito per l’Lsd e le droghe, ma questa è solo una parte della storia. Penso semplicemente che non volesse stare in una band, voleva dipingere magari, fare altro».
Con lui, nel 1967 registraste il primo disco «The Piper at The Gates of Dawn» ad Abbey Road, di fianco ai Beatles alle prese con «Sgt Pepper».
«In quel momento loro erano gli dei e noi eravamo i bimbi al primo giorno di scuola: imparammo da loro. E loro non impararono niente da noi».
Ma lei, che è l’unico ad essere in tutti i dischi della band, quale preferisce?
«“A Saucerful of Secrets” del 1968, che porto in giro ultimamente in tour, tributo a Syd ma anche l’inizio della scrittura di Roger: un album di passaggio».
Ecco, Roger Waters: tra i due litiganti, lui e Gilmour, lei è sempre stato nel mezzo.
«Oggi si odiano ancor più di ieri, ma quando stavamo insieme, probabilmente, il contrasto era la loro forza creativa. Anche se vado d’accordo con entrambi, oggi vedo più Roger di David».
Già, si odiano. Gilmour ha chiuso definitivamente la porta alla reunion con Waters: «Non vado con chi sostiene i dittatori».
«Non c’è più ragione di fare nulla, ormai è meglio che ognuno vada per conto suo. Dovrebbe risorgere Mandela per rimetterci insieme, come accadde nel 2005, ma non è possibile, mi sa».
Tornando in Italia, ha mai sentito parlare dei Måneskin?
«No, ascolto ancora i miei contemporanei, Hendrix, Clapton, Ginger Baker…».
E la Ferrari, lei che è un grande appassionato di auto?
«Sono un grande fan, come di Hamilton: sono stato in Bahrain, ha delle chance, ma è così difficile competere con le tecnologie».
Fra cento anni come vorrebbe che fossero ricordati i Pink Floyd?
«Come una band che faceva grande musica, nonostante la terza guerra mondiale tra Roger e David: nel 1967 pensavo che sarei rimasto nella band 3 anni e mi sarei trovato un lavoro vero. E invece eccomi ancora qui».
(articolo di Matteo Cruccu – link)