Premessa doverosa, non sono un amante delle tribute band in senso lato, in parte a causa di un (in)sano pregiudizio verso l’effetto “tale e quale show”.
In parte per aver assistito a spettacoli repellenti (con quelle volgari imitazioni di Robert Plant o Mick Jagger da parte di simpatici 50enni che non hanno né la voce, né il fisico, né i capelli per permettersi di scimmiottare gente simile, neanche oggi che di anni ne hanno più di settanta), in parte per il fatto di aver militato in gruppi di questo tipo in cui mi si chiedeva di vestirmi come questo o quel chitarrista (così come si vestiva negli anni 60, immaginate …). Men che meno sono stato mai indulgente con tribute band di gruppi molto meno iconici nei volti e nelle pose sul palco, ma dal sound e dalla dimensione visiva – e concettuale – imponente come i Pink Floyd.
Se dovessi passare in rassegna tutte le tribute band di questo tipo (compresa quella con cui ho suonato) inizierei un elenco lungo settantacinque pagine con conseguenti imprecazioni. Quello che più volte ho contestato, oltre al fatto di replicare sempre le stesse scalette dei live “ufficiali” (qualcuno ha detto P.U.L.S.E. ?), oltre ai suoni appena stentati a fronte di una storia sonora che definire maestosa sarebbe riduttivo, è la tendenza a mettere su uno spettacolo totalmente privo di senso, mischiando sacro e profano, o addirittura inserendo nella scaletta momenti da sagra della porchetta (con tanto di balletto del vecchietto di paese sotto il palco) che vicino al nome Pink Floyd appaiono come eresia.
Fatte queste premesse da acido rompiscatole, ho avuto modo – per fortuna – di ricredermi sulla bontà di alcune cover band, nello specifico quelle di natura pinkfloydiana. Parlo di quei progetti (perché di tanto si tratta) che hanno alle spalle una gestazione molto lunga, uno studio costante pervaso dal tentativo di proporre cose nuove (mai suonate live con insistenza dalla band) accanto ai grandi classici, facendolo con una voce certamente degna dei Pink Floyd, ma fortemente personale. Lo scorso sabato 15 dicembre, presso il teatro Nestor di Frosinone, ho avuto modo di assistere, per la seconda volta nel giro di qualche anno, a uno spettacolo dei Pink Floyd Legend, band che sul territorio nazionale si sta facendo rispettare da un bel po’ di anni con produzioni molto studiate e innovative.
Per fare qualche esempio, il gruppo di origini romane ha portato in giro qualche repertori come il celeberrimo “Live at Pompeii” (facendolo dentro dei teatri romani come quello di Ostia Antica in cui ha suonato anche gente come … Jeff Beck); l’intera esecuzione di quell’opera strappaviscere troppo sottovalutata che è “The Final Cut” o addirittura arrischiandosi in proposte del tutto inedite in tributo al genio di Roger Waters con estratti da “Radio K.A.O.S.” o “Amused To Dead”.
Come è evidente, in questo caso il tentativo non è soltanto quello di riportare in giro atmosfere e repertori Pinkfloydiani, ma quello di raccontare frammenti di storia dimenticati da molti ma non per questo meno amati, regalando al pubblico esperienze sonore e visive nuove che non si trovano altrove, soprattutto vista la buona attività live (alleluia) dei “sopravvissuti” ai Pink Floyd (parlo dei recenti tour di Gilmour, Mason e Waters). Nel caso specifico del concerto di sabato scorso i Pink Floyd Legend hanno riportato, per l’ultima data del loro tour del 2018, uno dei loro pezzi forti: “Atom Heart Mother”. Già dal nome dello spettacolo sono chiari quali siano i riferimenti da prendere in considerazione.
Lo show è diviso infatti in due parti, la prima presenta la classica immersione nel repertorio più “inflazionato” dei Pink Floyd, con frammenti presi da dischi come “Wish you Were Here” o “The Dark Side of the Moon” e non solo, presentando la classica formazione con due chitarre, basso, tastiere, batteria, sax e voci. La seconda parte invece, è caratterizzata dalla presenza di una sezione orchestrale, in grado di offrire sprazzi dell’epica di “The Wall” o personali (e ottimamente riuscite) rivisitazioni di frammenti di “The Final Cut”. Ovviamente il culmine dello show è segnato dall’esecuzione della suite integrale di “Atom Heart Mother”.
Si tratta del pezzo forte dello spettacolo che tutti in sala aspettano con ansia, in parte a causa della fama che i Pink Floyd Legend si sono guadagnati (dal 2012 a oggi) anche grazie a questo pezzo (lo so, è riduttivo definirlo tale), in parte per il fatto che attualmente in Italia (e forse in tutto il mondo) quella dei Pink Floyd Legend vada a rappresentare l’unica esperienza sonora dal vivo in grado di riproporre l’intera suite in tutta la sua bellezza, la sua potenza e il suo sviluppo – a tratti estatico e ossessivo, ma sempre – sognante. Non darò giudizi di merito sull’esecuzione, anche perché non potrei che parlarne in modo positivo, vorrei però soffermarmi a riflettere sulla band, la sue evoluzione nel tempo e l’effetto complessivo dello spettacolo.
Da buoni romani i Pink Floyd Legend hanno saputo costruire uno show in grado di lasciare l’ascoltatore, a spettacolo concluso, “beatus ac plenus” … in poche parole, con la stessa sensazione positiva di quando ci si alza dalla sedia dopo aver mangiato per tre ore con soddisfazione in un ottimo ristorante. Il repertorio vastissimo, di cui potete leggere le canzoni nella scaletta di sotto, non sarebbe sufficiente a dare questa visione d’insieme. Come già avevo accennato, nel 2013 avevo assistito al primo spettacolo romano (all’auditorium della Conciliazione), uscendone soddisfatto ma non come questa volta. Apprezzai molto la scaletta, l’impostazione dello show – con tanto di lettura e commento dei testi, segno di voler andare oltre il semplice tributo – ma meno la cura di alcuni arrangiamenti, nello specifico, quelli di chitarra.
L’avvicendamento avvenuto della band in questa sezione, con una nuova prima chitarra, ha conferito al sound della band quel giusto carattere, quella cura per il dettaglio e quella personalità che non può mancare nell’eseguire pezzi incisi nella storia dei secoli da un signore che ha in David il nome e in Gilmour il cognome. La dimensione sonora è imponente, fedele all’originale ma mai troppo al punto da risultare una banale imitazione.
Il sound dello spettacolo è infatti intriso del carattere di un gruppo ormai ben rodato e in grado di metabolizzare un repertorio, così importante e prestigioso, al punto da renderlo quasi (il “quasi” è sempre d’obbligo) proprio. Altri aspetti che ho molto apprezzato dello spettacolo sono stati i numerosi riferimenti visivi, sempre aggiornati, ispirati dagli ultimi spettacoli dal vivo (soprattutto watersiani), sottolineando alcuni aspetti della dimensione concettuale che in uno show che porta con sé l’eredità dei Pink Floyd non può mancare. Ovviamente non elencherò quali siano le trovate sceniche di grande efficacia visti nello spettacolo di sabato scorso, anche perché la cosa migliore è scoprire dal vivo il tutto, la rete ci toglie troppo il gusto della sorpresa.
Non a caso, per la primavera prossima sono previsti altri spettacoli dal vivo della band, su tutti spicca quello di Roma, il 29 di aprile presso l’auditorium parco della musica, stesso gruppo, stesso tour. Arrogandomi il diritto di dare un consiglio a Fabio Castaldi e co., mi piacerebbe vedere uno spettacolo ancora più concettuale, sulla falsa riga degli ultimi strali watersiani che hanno fatto tanto discutere in tutto il mondo. Si tratta di un’operazione coraggiosa ma nuova, e sono sicuro che i Pink Floyd Legend avrebbero il carattere per farlo dopo aver già sperimentato di tutto nella dimensione Floyd.
Scaletta del 15/12/2018
Set 1
Shine on you Crazy Diamond
Learning to Fly
Time
The Great Gig in the Sky
Money
Us and Them
Brain Damage
Ecliplse
One of These Days
Wish you Were Here
Set 2
In the Flesh
The Happiest Days our live
Another Brick in the Wall Part 2-3
Atom Heart Mother suite
Summer 68
Southampton Dock
The Final Cut
Nobody Home
Vera
Bis
Bring the Boys Back Home
Comfortably Numb
Atom Heart Mother suite (reprise)
Nota di merito, “Summer 68”, molto emozionante altra traccia spesso dimenticata ma di immensa bellezza, grazie Rick!
Matteo Palombi – Onda Musicale