Musica

Il dibattito politico nel ciarlare post-sanremese

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Dopo il fervore dei primissimi giorni, il (dis)gustoso dibattito di rito post-sanremese, che ha visto sprecarsi pagine e pagine di parole su social e giornali, pare aver visto la sua fine. 

Di quale polemica stai parlando?”, tra le tante, direte… e in effetti non posso darvi torto se mi rivolgete questa domanda, poiché il dopo festival con i suoi strali sembra essere la cosa più succulenta per tutti. Dai giornalisti – musicali e non –, fino ai “critici” dell’ultima ora (quelli che scandagliano con presunti pareri musicologici ogni ritornello sanremese, facendo impietosi paragoni con un presunto passato illustre e via discorrendo) e, novità delle ultime edizioni, anche gli stessi artisti, tutti sembrano avere il loro “lead role in a cage” (perdonami Roger), proprio nel chiacchiericcio da salottino della domenica postsanremese. E al diavolo la musica!

Ora, non mi va di parlare del “decadimento della musica italiana e coeva”, anche perché non è a Sanremo che vado a cercare il colpo di genio, e nemmeno ho voglia di parlare del frignare di Ultimo, molto prossimo al post 4 marzo 2018 (esattamente un anno fa), quando qualche leader politico  che – pur aveva partecipato alla scrittura e fatto votare quella legge elettorale rivelatasi a posteriori incredibilmente ingiusta con lui e i suoi alleati (dopo la clamorosa ecatombe) – se la prendeva: A) con chi non lo aveva votato; B) con chi non gli aveva permesso di cambiare le regole del gioco prima di giocare. Genio! Come Ultimo… Ora, questo impietoso parallelismo tra elezioni politiche scorse e l’ultimo festival, non vuole essere un ennesimo pretesto per fare polemica, non mi piace, né credo ci sia molto da dire. Tuttavia, vorrei ripartire da qui per trarre delle conclusioni da alcune considerazioni che dai numerosi dibattiti in rete sono scaturite.

Un altro degli oggetti di contesa, molto caldo fino a qualche giorno fa, è stato quello inerente alla “sorprendente” vittoria di Mahmood. Per molti questa sembra nascondere una subliminale propaganda antigovernativa o il germe del radicalchickismo congenito di una parte della nostra stampa. E giù di lì con complotti a più livelli, si parla di offese alla “volontà popolare” qualcuno addirittura ha parlato di un tentato “colpo di stato”, e allora tutti sui social scendono in piazza con la bandana in testa, il pugno alzato, pronti a combattere per difendere il sacrosanto diritto alla “Libertàààààààà”. Un dibattito che nei toni, di fatto, si fa sempre più politico, la sala stampa è messa alla gogna, me nel frattempo improbabili e – di solito – anonimi giornalisti musicali vengono portati nei salottini della domenica in veste di surrogati dei prodotti d’ursiani.

I toni sono quelli di sempre, belli ignoranti, clamorosamente accesi, come se fosse in discussione il futuro del mondo e quello della musica italiana. Poi, ovviamente, non poteva mancare come ciliegina sulla torta il commento delle nostre istituzioni. Un bel post di Matteo Salvini basta per colorare definitivamente di politica il ciarlare post-sanremese: “Mah… avrei scelto Ultimo”. Ed ecco che tutti i complottisti hanno nel loro “capitano” – questa volta vagamente renziano o ultimiano (se vi pare) – la bandiera da seguire nella loro nuova personale imprescindibile battaglia, mentre allo stesso tempo, tutti i naturali oppositori iniziano a riempire le loro pagine di cose che suonano molto come “Je suis Mahmood”.

Ma poi eccolo che arriva il colpo di genio! Più di qualcuno, per mettere pace alle varie contese, emette la sua sentenza di risoluzione – decisamente democristiana! – “Ragazzi, ma musica e politica sono due cose totalmente diverse!” E lì inizio a ridere. Ora, ognuno può leggere ciò che vuole nella musica, e non voglio riaffermarne il potenziale comunicativo in termini di coscienza sociale. È evidente quanto, da almeno un ventennio, non sia più così. Lo testimoniano le reazioni di un pubblico che a fronte delle proposte di impegno da parte di alcuni nomi internazionali, che della provocazione e un’indole militante hanno fatto la loro cifra distintiva, sembra più interessato a bere birra e battere le mani che non a porsi interrogativi.

Tuttavia, se è vero che la musica, o più in generale una qualsiasi forma d’arte, nel mondo del pubblico intrattenimento, sembra aver perso il suo potenziale comunicativo, a causa di un pubblico che non ne vuole sapere, è anche vero che quello stesso pubblico sembra inevitabilmente attratto da ben altri divertimenti. In teoria non meno impegnati sebben posti in forme meno aggraziate e sublimi di quelle musicali.

Parlare di Sanremo, come si sarà capito, è solo un pretesto per portare la questione al centro dell’attenzione: la musica stessa è luogo di dibattito politico, può esserlo e ne abbiamo avuto ampiamente conferma. Nel caos post-sanremese, richiamato caricaturalmente in questo articolo, si possono rintracciare infatti tutti i sentimenti del nostro tempo che intasano il “bla,bla, bla” del dialogo politico.

In primo luogo, l’invettiva contro le caste. Non si potrebbe leggere altrimenti il poco elegante battibecco tra Il Volo e Ultimo contro la sala stampa, con tanto di esultanza sui social da parte di una parte del pubblico che – pur non avendo minimamente a cuore la reale dimensione artistica degli stessi – prende invece la palla al balzo per riportare al centro del discorso contrasti di altra natura. La guerra contro i “giornalai” o i “servetti dell’establishment” sembra essere il punto centrale della questione. Così si sprecano i post, i video, e le celebrazioni dell’ennesima battaglia della rete che percorre il seguente schema: “Soggetto 1” asfalta/distrugge/sconfessa/smerda “Soggetto 2”. Provate a cambiare il primo di questi elementi con un esponente politico o un cantante, con un artista o un giornalista e non ci sarà nessuna differenza negli esiti ottenuti.

Un altro aspetto, connesso direttamente al primo, sta il successo mediatico che ottengono i vari “Soggetto 1” a fronte del dibattito appena raccontato. Se il termometro politico segnala una decisa impennata di quei partiti che si proclamano maggiormente colpiti dalla stampa, e che “asfaltano” nei dibattiti pubblici i “Soggetto 2” di turno; le classifiche di vendite segnalano un improvviso aumento della popolarità e viralità di singoli e dischi degli artisti nell’occhio del ciclone. Così è per Ultimo quanto per Il Volo (benché pare stiano antipatici a tutti, un po’ come alcuni esponenti della principale forza politica del paese, che però di voti pare prenderne in quantità). Mahmood stesso non è immune a questa benevola tendenza. Soldi vende moltissimo e sta ottenendo ascolti da capogiro nonostante che quell’”indiscutibile” voto popolare di Sanremo lo avesse relegato in una posizione meno degna di nota. Anche qui, il blaterare sull’essere a favore o contro, a destra o sinistra della barricata (che poi si tratta sempre di quello), pesa ben più delle reali valutazioni artistiche.

C’è poi un ulteriore elemento da tenere in considerazione in questa disamina, che forse può giustificare simili fenomeni più di ogni altra analisi. Come già ipotizzato sul finire degli anni Ottanta da Neil Postman, la società mediata sembra avvertire il costante bisogno di spettacolarizzare tutto, facendo si che dimensione pubblica e mondo dell’intrattenimento vadano sempre più ad avvicinarsi e ad assomigliarsi. E così la differenza che passa tra un artista, un uomo di spettacolo, un uomo di potere o un’istituzione tende ad assottigliarsi sempre di più. Il pubblico del dibattito politico-culturale si è trasformato in una sfilza di fan pronti ad applaudire la performance di turno in ogni momento, così nei comizi (altro che concerti rock), come nella rete.

Ed è in questo modo che una diretta Facebook di sfogo post Sanremo pesa sui consensi artistici molto più della capacità creativa, allo stesso modo in cui questa può pesare in termini elettorali sulle principali questioni del momento. Ovvero, attraverso un contatto che appare come diretto, spettacolarizzando oltre modo qualunque questione, anche gonfiandola a dismisura, e generando un dibattito in cui tutti, in modo indistinto, possono partecipare e addirittura avere risposta.

Allo stesso tempo però, l’interlocutore appare disinteressato, se non restio, a chi tenta di proporre un dialogo attraverso altre forme che lo rendano meno spettacolare e, in virtù di ciò, meno partecipe. Un artista che cerca di stimolare il medesimo fervore provocando dal palco, con una comunicazione unidirezionale, quindi artista-pubblico senza feedback da parte di quest’ultimo, avrà risposte limitate quanto ne avrebbe un docente universitario che espone le sue brillanti teorie senza dare la possibilità alla classe di partecipare, creare fazioni e prendere una posizione. Sia chiaro, il problema non è l’artista, che comunque fa quello che vuole anche se il pubblico paga, ma appunto è proprio quest’ultimo, diventato troppo viziato. E così, ciò che appare imprescindibile oggi è la possibilità di prendere parte allo spettacolo, essere nello show a prescindere da quale sia il contenuto o qualunque valutazione di merito.

Per concludere, quest’ultima edizione del festival di Sanremo a me è parso questo, l’ennesima riprova dell’importanza della spettacolarizzazione di una kermesse che già da tempo è mero spettacolo e poca arte. Il vero show è quello che discute dello show, e quello in cui tutti partecipano con gioia e interesse. Della musica forse non interessa a nessuno davvero, ma dei comizi inerenti a questa ne siamo abbastanza voraci.

Politicizziamola pure quindi, ma non azzardatevi a parlare di politica nelle canzoni, a esporre una posizione morale o altro. Giustamente vi diranno: “suona e basta”, a cosa serve ascoltare se poi non puoi… postare?

 

P.S. scusa ancora per la citazione Roger, spero di averti fatto giustizia, Amen.

 

Matteo Palombi – Onda Musicale

 

 

— Onda Musicale

Tags: Roger Waters/Festival di Sanremo/Il Volo/Mahmood/Matteo Palombi
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