In giro per mezza Europa per celebrare i suoi primi 85 anni di vita, con un passato sulle spalle dal peso notevole e un’età che sembra non spaventarlo minimamente, John Mayall (leggi la nostra intervista) ha fatto tappa anche a Roma con il suo “85th Anniversary Tour”, forte del suo ultimo disco “Nobody Told me”.
Anche conosciuto come “The Godfather of the Blues”, Mayall, dagli anni Sessanta a oggi, ha percorso il globo in lungo e in largo con il solo scopo di divulgare l’unico verbo per lui indiscutibile, con tutti i suoi dogmi e il rispetto del caso. Inventore o padre del british blues, con un gusto musicale senza pari che gli ha permesso, tra gli altri, di scoprire alcuni dei più grandi talenti della chitarra elettrica quali Eric Clapton, Peter Green, Mick Taylor, John Mayall ha imposto il suo marchio su un’intera generazione, senza farsi assalire e sommergere dal passare dei tempi e da un successo che, con l’allontanarsi degli anni Sessanta e Settanta, avrebbe imposto la contaminazione con altre sonorità per restare sulla cresta dell’onda.
Infatti, Mayall non avrebbe mai abbandonato il blues nudo e crudo per abbracciare nuovi generi, incidendo dischi su dischi e consumando chilometri su chilometri, a suon di standard della tradizione e nuove tracce divenute, grazie a lui, a loro volta classici per le generazioni di bluesmen successive. Se per rintracciare i frutti di questa tradizione dovremmo scomodare i soliti grandi nomi – anche loro con qualche annetto sulle spalle – il concerto della scorsa settimana presso l’Auditorium Parco della Musica, è iniziato proprio mostrando uno dei più pregevoli e inaspettati frutti del seme lasciato da gente come Mayall. La cosa interessante sta nel fatto che il terreno in cui questo frutto sarebbe cresciuto sarebbe stata l’Italia, precisamente la Sardegna.
Ad aprire il concerto del leggendario bluesman inglese infatti, c’è stata la pregevole voce, ricca di personalità, grinta e profonda immersione in un sud mai così vicino alle lontane terre del Mississippi, di Francesco Piu (leggi la nostra intervista). Il trentasettenne chitarrista di Osilo ha trascinato l’intero uditorio all’interno di una dimensione mista, dove le radici delle più pura tradizione acustica hanno incontrato la carica e il canto di protesta di un meridione dello stivale che ha sempre mostrato una certa vicinanza alle sonorità transatlantiche.
Con un approccio alla chitarra fortemente percussivo, una pennata corporea, decisa e trascinante, il chitarrista e cantante nostrano non poteva che rappresentare un inizio più degno per il concerto di uno dei padri del genere. Grande tributo alla tradizione, con uno sguardo al futuro, “da tenere sott’occhio questo Piu” qualcuno accanto a me aveva detto, “sott’orecchio” puntualizzavo.
Dopo qualche minuto in cui il palco veniva sgomberato delle chitarre utilizzate per l’esibizione, con il tecnico del suono che sistemava una strumentazione che già la diceva lunga su quella che sarebbe stata l’esibizione – un pianoforte e un Hammond elettrico, due microfoni di fronte a ciascuna tastiera, una chitarra elettrica Gibson oriented con annesso amplificatore, basso e batteria – il padrino del blues veniva annunciato con il giusto tono celebrativo. Dopo pochi istanti la leggenda entrava in scena, con un passo incerto e pesante, unico segno di un’età non propriamente tra le più giovani, ma una grinta e una voglia di divertirsi ancora intatta.
Il pezzo di apertura è uno dei suoi classici più famosi, Oh Pretty Woman, con Mayall che di gran carriera e classe fa risuonare il suono dell’organo Hammond ad accompagnare una voce ancora incredibilmente viva, vera e credibile. La band di supporto si mostra sin da subito, come di consueto per un artista così esigente, decisamente all’altezza.
Alla chitarra, in linea diretta con i grandi interpreti delle sei corde che avevano già accompagnato Mayall, c’è stata una meravigliosa Carolyne Wonderland (leggi la nostra intervista). Chitarrista americana, che vanta collaborazioni di tutto rispetto nel suo curriculum, come quella con Bonnie Raitt, la Wonderland ha sfoggiato un virtuosismo sempre intelligente, con un suono semplice e tagliente e una tecnica tutta personale caratterizzata da unfingerstyle ricco di dinamica e potenza.
Suoi alcuni dei momenti migliori dello spettacolo, soprattutto quando si è cimentata nel canto, dal sapore fortemente texano, in pezzi come Nobody Falut but Mine. Greb Rzab al basso, altro grande virtuoso, dal fraseggio dalla presenza scenica decisamente eclettica, ha colorato con classe e ironia di un sapore vagamente diverso le linee ritmiche della tradizione, mentre alla batteria un mastodontico Jay Davenport (leggi la nostra intervista) ha saputo trascinare una band costantemente all’altezza della situazione in ogni contesto ritmico.
Il concerto, anche per la qualità musicale e tecnica dei vari componenti del gruppo, si è sviluppato in modo piacevole e sempre molto equilibrato, senza eccessivi personalismi e virtuosismi atti a mascherare il passare degli anni per quello che, non dimentichiamolo mai, era il protagonista della serata.
John infatti si mostra ancora un leone, non solo per la sua mole fisica imponente che si staglia, come una colonna marmorea, al centro del palco, bensì per la capacità di gestire i vari ritmi del concerto, con la sua voce ma, soprattutto, la rara capacità di risultare efficace con ogni strumento. Passando con disinvoltura dal piano all’Hammond, dall’armonica alla chitarra, Mayall si destreggia perfettamente in quello che è un repertorio che ormai gli appartiene di diritto, sviluppando una scaletta che prende vita proprio sul palco, sfogliando un fascicolo di varie canzoni e, talvolta scegliendole personalmente, talvolta lasciando alla band il diritto di veto.
In questo modo la setlist,nel suo complesso, riesce ad apparire sempre naturale e mai scontata: dai classici come Early in the Morninga uno shuffle, in perfetto stile british blues, come I’m a Sucker for Love in grado di far balzare dalla sedia anche il più impassibile degli spettatori.
Se con le tastiere il grande bluesman inglese fa la voce grossa, come di consueto, è quando imbraccia le sei corde, lo strumento con cui John ha avuto meno dimestichezza nel corso della sua lunga carriera, che la sua performance lascia spazio a riflessioni particolarmente interessanti. Chi conosce bene la storia del musicista britannico saprà benissimo di come non sia mai stato un virtuoso, ma cos’è che lo ha reso così stimato dai tanti, tantissimi, musicisti ben più dotati tecnicamente, che lo hanno accompagnato nel tempo? La risposta è proprio nel modo in cui Mayall si avvicina alla musica che con la chitarra si fa particolarmente evidente: con un fraseggio minimale, a tratti stentato, riesce sempre a toccare – letteralmente – le corde giuste. Il modo di suonare non è quello convenzionale, eppure risulta estremamente credibile anche nei testa a testa con la mano più veloce, fluida e disinvolta della Wonderland.
Come tutti i grandi bluesmen sanno fare, così come era per gente come Howlin Wolf o Muddy Waters, la chitarra e ogni altro strumento utilizzato, diventa la semplice estensione della propria voce musicale. E in questo modo, non conta quante note Mayall riesca a inserire nella canzone, ma l’efficacia delle stesse, tanto quando inserisce, qui e lì, un accordo di piano o un bicordo di chitarra, quanto da un bending appena riuscito passa a una sorta di tapping che si fa spazio con prepotenza all’interno dei costanti forte-piano della band.
E con grande disinvoltura dall’ipnotica Do I Please You si passa a una Chicago Linein cui, trascinati dall’armonica di John, la band tira fuori il meglio di sé. Tra improvvisazioni e quella voce, tanto british quanto nera, lo spettacolo si trascina, come un vecchio treno partito chissà quando dalle lontane terre dell’ovest fino al bis finale: con il pubblico che applaude ogni due secondi sullo shuffle conclusivo di I Want All my Moey Back.
Nella standing ovation generale sono risuonate forti le sue parole a fine concerto, quasi come un ordine che è più un invito bonario a portare avanti quello che è stato lo scopo della sua vita. “Keep on listening the Blues!”, chiosava John a fine concerto, di fronte a un pubblico che – per buona parte – non conosceva la maggior parte delle canzoni ma che, portato via dalla magia del blues, non ha potuto esimersi dal prostrarsi di fronte al proprio padrino.
A concerto concluso c’è un po’ di innegabile magone frutto dell’immenso rispetto verso un grande artista, un musicista completo in grado di portare avanti la sua lunghissima carriera perseguendo solo e soltanto uno scopo, senza ingoiare bocconi amari per staccare qualche biglietto in più. E di fronte a simili fenomeni, sempre più rari, non si può che pensare a quanto sarebbe necessario ridiscutere l’intero concetto di industria musicale.
Scaletta del 26/03/2019
1. Oh Pretty Woman
2. I Feel so Bad
3. Do I Please you
4. Nobody Fault but Mine
5. Talk About That
6. Early in the Morning
7. I’m a Sucker For love
8. Gimme One More Day
9. Blues for the Lost Days
10. Chicago Line
11. I Want All My Money Back
Matteo Palombi – Onda Musicale