Musica

“Cantautori”: li conosciamo o presumiamo di conoscerli? Intervista a Paolo Talanca

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Tempi di quarantena, tempi di ascolti, tempi di riflessione sugli ascolti. Tra le poche (ma buone) note positive dell’isolamento da covid-19, il naturale e coarto riappropriarsi di una parte del proprio tempo – un tempo, paradossalmente, “umano” da impiegare in attività o elucubrazioni poco usate quando trascinati dalla frenesia dell’epoca “liquida” – rappresenta certamente un’opportunità da cogliere a piene mani.

E a proposito di musica e riflessioni varie, la quarantena può offrire quel tempo necessario a chiarire alcuni aspetti utili per rivalutare le proprie esperienze di ascolto, dotandole di una nuova consapevolezza e fare luce anche sulle parole che utilizziamo, spesso erroneamente o senza piena conoscenza dei significati. Per fare un esempio, potremmo dibattere per ore su cosa si intenda per “cantautore” o “canzone d’autore”, dando il la a una marea di opinioni divergenti basate prevalentemente sui propri gusti e le esperienze individuali, spesso reputate universali.

Chi potrebbe negare, infatti, che De André possa essere considerato un cantautore in senso puro? Probabilmente nessuno, o quasi. Probabilmente lo stesso numero di persone che negherebbe l’etichetta “cantautore” a un Vasco Rossi o un Lucio Battisti. E il discorso qui si complicherebbe non poco continuando a scavare… perché se cantautore è soltanto il “poeta con la chitarra” che scrive tutto da solo, allora – prendendo per buona una lontana provocazione di E. Deregibus – neanche un De André sarebbe un “cantautore”, avendo (cito Deregibus): “una ventina di canzoni interamente sue su più di 130 pubblicate, un 15%”. Ma ovviamente non possiamo ridurre il tutto a un mero calcolo di questo tipo.

Poi c’è qualcuno che i cantautori non li ascolta per nulla perché – o li “ascolta anche se…” – politicamente non proprio “di sinistra”. Eppure, Ennio Melis e Vincenzo Micocci della Rca Italiana coniarono questo termine proprio per smarcarsi da una politicizzazione: nera, rossa o di qualunque colore. “E ma Guccini ha scritto “La locomotiva”” oppure “E ma Battisti era di destra”, qualcuno direbbe… frasi abbastanza circostanziali, tanto insignificanti quanto poco veritiere (ammesso che la veridicità di queste abbia qualche importanza).

C’è una sorta di cortocircuito conoscitivo in corso che, presumo, abbia luogo in una concezione pregiudiziale e aprioristica, forse inconsapevole, dovuta alla poca chiarezza o poca padronanza dell’abusatissima definizione: “cantautore”.  Non sarò io, tuttavia, a cercare di illuminare angoli ancora bui a tal proposito, compito cui questo articolo vorrebbe ambire (nei propri limiti).

Per tentare di risolvere l’annosa questione – che in parte quella recente e superficiale polemica su Battiato sembrerebbe aver riportato in auge – sarebbe interessante leggere con attenzione le parole di Paolo Talanca, forse il più autorevole, aggiornato e consapevole critico della nostra canzone. Ne è scaturita un’intervista molto interessante, che rimanda inevitabilmente ai suoi più recenti studi sulla canzone, in generale (“Il canone dei cantautori italiani”) ma anche nel particolare (il suo illuminante: “Fra la Via Emilia e il West: Francesco Guccini: le radici, i luoghi, la poetica”).

 

Partiamo dall’inizio, o dalla fine: “Canzone d’autore”. La definizione precede l’autodefinirsi di alcuni artisti come facenti parte di una “scuola”/“tradizione” o ha rappresentato un modo per “canonizzare” un fenomeno in parte accidentale?

“Io ho scritto molto su questo. Si è creato alla fine degli anni Sessanta un riconoscimento intorno al termine canzone d’autore, soprattutto nei Settanta, prima non era molto usato. A mio avviso, all’inizio c’erano due strade che la canzone d’autore accoglieva a piene mani. Una è quella della raffinatezza: i cantautori come poeti, sappiamo che non sono tali ma, per semplificare, erano coloro che avevano uno status. Scrivevano canzoni che fossero valide da un punto di vista letterario. Poi una strada, una forza filologica della canzone d’autore, perché rinviava a un unico autore, quindi alla forza dell’autore che, essendo unico, sapendo fare solo lui quella canzone in quel modo, riusciva a smarcarsi, emancipandosi e fare a meno delle case discografiche. Grande punto di rivendicazione artistica nel Novecento per la canzone: lo fa sempre cercando di staccarsi dalla casa discografica. Succede in ogni genere che voglia in qualche modo dare una sensazione più artistica che poi sfocia nella parola. Sono convinto che, se nel premio Tenco era normale che fossero invitati Vecchioni, De André, Guccini, non era invece normale che venisse invitata la PFM, per esempio. Oggi è naturale che la PFM sia canzone d’autore, è il meccanismo dell’antonomasia. Canzone d’autore ha avuto come espressione una fortuna talmente tanto grande che, dal fatto di essere una possibilità all’interno della canzone d’arte – si ha un insieme di canzoni che chiami “canzone d’arte”, dove metti: d’autore, rock, progressive, ecc. – dagli anni Ottanta in poi si è spostata come etichetta, come un insieme. Quindi canzone d’arte e canzone d’autore sono diventati sinonimi. Per noi oggi è naturale pensare che siano la stessa cosa. E questo, secondo me, più che l’ostracismo per questioni politiche è quello che ha tenuto lontano Battisti dal premio Tenco, perché non veniva percepito come un cantautore che scriveva le parole, però oggi sarebbe assurdo dire che Battisti non sia un cantautore.”

 

L’importanza del premio Tenco. Ancora oggi ha un ruolo centrale per definire ciò che sia all’interno del contenitore “Canzone d’autore”. Forse è proprio quando si crea un premio di riferimento che il concetto inizia a propagarsi. Secondo te, dunque, il Tenco è una conseguenza di un fenomeno culturale già accaduto?

“Questo è un argomento centrale, ti cito Franco Fabbri, in un articolo degli anni Ottanta parlava dei generi della canzone. Lì descriveva in due righe quanto accaduto negli anni Settanta e, in generale, quello che succede con i generi. I generi musicali sono dei fatti musicali che abbiano un riconoscimento sociale all’interno di una comunità. Se quei fatti musicali che accadevano negli anni Settanta hanno come riconoscimento un termine che è “Canzone d’autore”, il riconoscimento sociale è decretato dal club Tenco. Infatti, descrivendosi come rassegna della canzone d’autore, soddisfa la parte sociologica della descrizione di Franco. La canzone è sempre un miscuglio tra semiotica e sociologia. Pasolini diceva che per scrivere una poesia basta scriverla a casa su un foglio. Un film no, perché ci vogliono socialmente diversi attori. La canzone è più vicina alla poesia: nella tua camera da letto se la scrivi esiste, però poi c’è bisogno di un riconoscimento sociale, altrimenti è come se non esistesse. Quindi, diciamo che artisticamente la canzone c’era, i fatti musicali c’erano, il riconoscimento sociale, per la maggiore, è dovuto al club Tenco. È stata un’intuizione di Amilcare Rambaldi quella di capire che c’erano questi soggetti che il grande pubblico non voleva – perché voleva ancora Gianni Morandi – ma avevano molti estimatori. Il Tenco infatti nasce da un articolo di giornale che dice “Ciampi Vecchioni Guccini, bravi, ma chi li vuole?”. Rambaldi rispose a quell’articolo dicendo di voleri lui e da lì parte il Tenco.”

 

Alcuni cantautori più di altri fanno largo uso di immagini, citazioni, riferimenti o calchi letterari. Quale è il rapporto tra letteratura “canonica” e canzone?

“Secondo me la citazione letteraria è tale quando c’è una poetica nella canzone. La letteratura è mettere insieme una serie di lettere, di modi, percorsi letterari per far sì che dal singolo si arrivi alla moltitudine e quindi in qualche modo tutta la poetica di un autore, chi la crea quindi fa letteratura. L’abbassamento al tono colloquiale però, il fatto di essere diretti e comprensibili nei tre-quattro minuti della canzone è fondamentale. Questo lo fa la canzone già dai tempi di Tenco, già dai Cantacronache, anche se è la scuola genovese a farlo direttamente verso il grande pubblico. La canzone arriva quindi con circa cinquant’anni di ritardo rispetto alla poesia, c’è un saggio molto interessante di De Mauro, che sottolinea come in poesia questo fosse successo con Gozzano, quando i poeti a inizio Novecento iniziano a scrivere per i cittadini, per la gente di città che iniziava a comprare sempre più spesso libri, anche di poesia. Bisognava abbassare il linguaggio al colloquiale per essere compresi, infatti la sua raccolta di poesie si chiama “I colloqui”. I cantautori lo fanno cinquant’anni dopo, con Modugno a Sanremo, ma realmente con la canzone d’autore genovese. Tenco, ad esempio, non parla più d’amore in senso aulico ma dice semplicemente: “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare”. Abbassare il linguaggio al colloquiale è ovvio, non si può non scrivere colloquialmente in una canzone. È chiaro che nelle involuzioni ed evoluzioni ci sono stili che possono essere più manieristici, prendi ad esempio Max Manfredi, che comincia a pubblicare negli anni Ottanta, quando la canzone d’autore ha già un percorso: l’era grammaticale era conclusa. Banalizzando doveva alzare l’asticella, grammaticalmente quella cosa è già fatta e se vuoi strabiliare devi fare qualcosa di più. Lo fa Manfredi, lo fa Ongaro. È chiaro che se alzi l’asticella di raffinatezza, manierismo, raffinatezza, rischi di allontanarti dal pubblico. Ci tengo a dire che i cantautori che citano la letteratura lo fanno per impastare e intrecciare la poetica della cosa citata, l’artista il poeta, con quella propria. Farlo gratuitamente è il male assoluto. Ci sono molti libri di colleghi che ci tengono a evidenziare le citazioni letterarie all’interno delle canzoni solo per evidenziarle, fanno del male alla canzone. Come se una canzone fosse importante solo perché ha citato D’Annunzio.”

 

È un meccanismo frequente in ambito accademico in generale. In particolare, per la cultura popular, ad esempio citare i Beatles solo per dire che potrebbero – e hanno – ripreso da Stockhausen…

“Vero. Invece spesso in canzone si cita la musica classica solo perché, per esempio, un certo passaggio armonico e melodico è conosciuto. A loro, in quel momento, serve il riconoscimento e lo inseriscono. Oppure per citare la poetica (anche musicale) di un certo artista; perché serve al loro discorso (anche musicale). Ma non lo fanno per salire di prestigio: Vecchioni non cita Borges per farsi dire quanto sia bravo. Vecchioni cita Borges perché in “Ninni” a lui serve quello straniamento temporale. Guccini cita Gozzano in “Incontro” perché a lui serve far capire, come in Gozzano, che il tempo che passa ci massacra: è inutile cercare di combatterlo, perdiamo. Quindi cita “La signorina Felicita” non per far capire di averlo studiato. È un problema perché, se non si parte da questo presupposto, la poesia sarà sempre percepita come la sorella più bella della canzone.”

 

Parliamo di come il pubblico recepisce la canzone. Il testo è spesso chiaro, ma tante volte viene frainteso, soprattutto quando c’è in mezzo la politica. Erano i tempi a dettare quelle letture così politicizzate o cosa? È il pubblico ad attribuire alle canzoni un valore politico o il contesto?

“Intanto la canzone parla dei tempi di cui è testimone. L’emancipazione artistica da parte dei cantautori rispetto alla ideologizzazione ha creato dei fraintendimenti gravissimi. Ne parlo sul libro su Guccini (“Fra la Via Emilia e il West: Francesco Guccini: le radici, i luoghi, la poetica” – ndr) ma anche sul Fatto Quotidiano (“Claudio Baglioni, canzone d’autore e commercio ideologico”). Credo che a monte ci siano soltanto due grandi generi di canzone: quelle che cercano la poetica del cantautore e quelle che testimoniano – vanno alla ricerca – dell’icona. L’icona è quello che ti spinge a farti conoscere dal pubblico e fare canzoni per quell’icona, il pubblico lo riconosce quindi si accorda perfettamente con il meccanismo mercantile. La poetica è il contrario, la si realizza se segui la tua necessità. A un certo punto si è capito che la canzone ideologica e politica, alzando sempre più l’asticella della politicizzazione, perché lo voleva la società, aveva forte consenso negli ambienti di sinistra con la canzone politicizzata. Questo succede all’inizio degli anni Settanta. Il primo a capire questo scollamento è De André e infatti scrive LA BUONA NOVELLA, dicendo al tempo che tutti si aspettavano un album politicizzato, mentre lui aveva parlato del più grande rivoluzionario della storia. De André poi cerca di affrontare nel vivo questo aspetto andando a fare la cosa più politica che potesse fare, che però non gli sembra riuscita al massimo [storia di un impiegato ndr]. Il pubblico quindi si aspettava l’icona, le case discografiche chiedevano l’icona ma i più grandi si scollano da questa situazione e non l’accettano. Questo deflagra soprattutto alla fine degli anni Settanta quando ormai era chiaro. Ad esempio la canzone di Lauzi “Io canterò politico”, che parla di Guccini. Perché i più grandi si distaccano dalla ricerca dell’icona politicizzata e ideologizzata. Lo fa Ivan Graziani e poi Gaber con “Quando è moda è moda” epolli d’allevamento.; “Libera nos domine”, soprattutto, di Guccini ma prima ancora in “L’avvelenata”. Bertoncelli diceva sostanzialmente a Guccini che non parlava delle cose sociali, di quello che succedeva nel mondo. Per tornare a Guccini quindi, arrivando a radici, è un disco non politicizzato, il fatto di aver messo nel disco “La locomotiva” significa voler recuperare le proprie radici anche storiche e sociali. Non cantare l’ideologia ma recuperare le radici come tutte le altre canzoni del disco, e lo fa tornando quando alcuni diritti non erano ancora acquisiti e si doveva lottare, tra Ottocento e Novecento. Canta “La locomotiva” con un linguaggio estremamente retorico, c’è una grandissima differenza ad esempio rispetto a “Contessa” che dice “Compagni, dai campi e dalle officine / prendete la falce, portate il martello / scendete giù in piazza, picchiate con quello /scendete giù in piazza, affossate il sistema”, e quello è un linguaggio colloquiale chiaro il messaggio di Pietrangeli è: voglio che andiate in piazza e facciate questo. Guccini no: parla di “Fiaccola dell’anarchia”; “Trionfi la giustizia proletaria”, è chiaro che sia un linguaggio retorico, lui non si sognerebbe mai di dare dei consigli alle persone. Chi ha pensato che si stesse parlando del presente storico, o non ha dimestichezza con le parole, o si fa trascinare dalla musica. Lui voleva essere completamente retorico, è una canzone piena di retorica, vuole recuperare il linguaggio del tempo, è una canzone totalmente letteraria.”

 

Non mi pare un caso poi che sia avvenuto tutto in quel periodo. Mi viene in mente quel gravissimo incidente con Roger Waters nel 1977 a Montreal o il Palalido di De Gregori, erano anni duri per la musica, qualunque musica avesse a che fare con un vasto pubblico.

“75’, 76’, 77’, sono anni cruciali perché lì c’è la frattura, prima c’era il fraintendimento, poi la rottura tra i cantautori migliori che avevano sempre pensato di voler far quello che volevano, non avevano mai fatto canzoni per compiacere il pubblico. A un certo punto questo viene fuori, ecco perché POLLI D’ALLEVAMENTO nel Settantotto. Graziani con “Fuoco sulla collina”, e lui non aveva fatto niente per essere frainteso. Poi l’episodio di De Gregori, o quello di Verona di Guccini. Lì non è più fraintendimento, lì è scontro aperto, scontro aperto con i cantautori che rispondo con le loro canzoni.”

 

Il racconto è stato deformato forse? Il pubblico quindi non conosce abbastanza le canzoni o forse non vengono “lette” nell’ascolto.

“Quando dico a delle persone di aver scritto un libro su Guccini mi rispondono: “Bello, perché anche io sono di sinistra”. Allora in quel caso rispondo che non è che possa piacere solo alla sinistra. È stato stereotipato, anche lui ne soffre. L’ultima volta che l’ho intervistato a ogni domanda rispondeva e poi finiva sul fatto che sia stato frainteso e sentito soltanto come cantautore politico, anzi, politicizzato. Perché politico è normale che lo sia, lui lo dice sempre: tutto è politico. Però molti lo vedono ideologizzato e lui è l’esatto contrario. Mi viene in mente, l’ultimo disco con Mauro Pagani e le canzoni di Guccini. C’è una canzone, “Stelle” che è cantata da Giuliano Sangiorgi dei Negramaro. Pagani ha fatto delle interviste promozionali del disco, intervistando anche Sangiorgi.  “Stelle” è una canzone molto delicata, molto intima. In 3-4 minuti di intervista, Sangiorgi cita la parola ideologia forse venti volte e lo fa parlando anche di “Stelle”, dicendo che Guccini è così tanto ideologico che anche una canzone “free” come “Stelle” risulta ideologica quando la stai cantando. Ora le cose sono due: o non sa cosa significhi ideologia, o non conosce minimamente Guccini.”

 

O forse entrambe le cose!

“O forse entrambe le cose. È una vulgata ormai che non regge. Se conosci Guccini, lui è principalmente intimista, prendiamone cento di canzoni: ottanta saranno intimiste. Il fatto che un gigante come Guccini vada ancora storicizzato è un dato di fatto avvilente.”

 

 

   Matteo Palombi – Onda Musicale

 

 

 

 

— Onda Musicale

Tags: PFM/Roberto Vecchioni/Fabrizio De Andrè/Roger Waters/Francesco Guccini/Festival di Sanremo/Francesco De Gregori/Premio Tenco/Club Tenco/Matteo Palombi/Covid-19
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