Così è morto, a forza di evocare teschi presto lo diventerà sul serio. Lemmy, l’anima e la voce – senza – voce dei Motorhead dall’altro ieri non è più tra noi.
Ne muoiono tanti, direte, anche di famosi, direte, anche di band più note, direte. Lemmy non era certo il più richiesto dai giornalisti, e nemmeno dalle masse, meglio le mezze calzette, più rassicuranti, anche commercialmente.
Ma i Motorhead, che del loro nucleo originario hanno visto dipartire Lemmy ieri e il batterista storico circa un mese fa, erano qualcosa di diverso. Erano vero metallo urlante.
Erano il metallo urlante delle periferie, dei proletari veri, quelli inglesi, quelli americani, quelli che se ne fregavano dei sindacati di massa ma ponevano le condizioni politiche con la loro competenza più che con l’assenteismo.
Erano i portavoce della vita vera, quella del portafoglio vuoto, del fumo e delle birre, delle donne col trucco che cola e i vestiti di plastica e della droga per non fare la guerra civile. Erano i portavoce di una società che dopo un breve periodo di sosta artificiale è tornata ad essere quella che era, i ricchi sempre più ricchi i poveri sempre più poveri, insomma ingiusta.
Lemmy non aveva corde vocali, aveva due gomene da baleniera annerite dal fumo, ma con esse faceva sognare i perdenti, sdoganava le masse dall’asservimento e le gettava in braccia alle più belle del reame, almeno per il tempo del concerto. E la ruggine che usciva dalla sua gola era la stessa che trovavi nelle spente ciminiere delle periferie abbandonate, o nelle lamiere degli slums di ogni angolo del pianeta.
Lemmy veniva da un piccolo villaggio inglese, quelli con ancora il pub chiuso alle donne e il druido che ti fa la predica, era finito a Los Angeles senza nemmeno rendersi conto del successo di massa della band. Una band dura, pestona, difficile da digerire, senza compromessi. Ma una band sincera, un po’, con le debite proporzioni, come i nostri Bastard, che se ne fregano delle masse commerciali preferendo il loro grido, e se non lo ascolta nessuno pazienza, ma il tempo darà loro ragione, come ha fatto per i Motorhead.
Mancherà, Lemmy, anche a chi non piace il Metal ma apprezza il coraggio di una vita senza paura di farsi male. E questo coraggio può appartenere solo ad un uomo fragile come era lui, un uomo fatalista, che coglieva l’attimo, con magari mille aiuti artificiali, ma a vederlo bere al pub con i suoi compagni d’infanzia, in un recente film-documentario sulla sua vita, si capisce subito chi aveva ragione, lui.
Aveva ragione a perseguire il suo sogno, seppure proibito. Perchè quelle borchie, quei bracciali e tutto l’armamentario del metallaro addosso ad un anziano che va per i settanta, non era solo costume di scena ormai anche un po’ patetico, ma erano le tacche sulla pistola fumante che lo rappresentava in una vita vissuta a mille, divorata con foga e digerita con altrettanto piacere, pur sapendo che prima o poi sarebbe arrivata l’indigestione che per fortuna ha fatto il suo dovere in fretta evitandogli sedie a rotelle od orpelli per incontinenti.
E a vederli i suoi coetanei, vestiti da pensionati di campagna, persone semplici per la maggior parte ex elettori teacheriani o ferventi presbiteriani ci si immagina che passeranno il resto della loro vita, senz’altro più lunga si spera, a raccontare ai nipoti il nulla e il niente o, forse, che tanto tempo fa, un loro compagno di nome Lemmy Kilmister..
a cura di Mario Garavelli