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La musica esoterica dei Proteus 911: intervista e recensione

Qualche giorno fa mettendo in ordine le cataste di CD che sommergono la mia stanza, mi sono imbattuto in due dischi che considero una perla del panorama rock degli ultimi tempi, per la raffinatezza e la ricerca del suono nelle sue latitudini più estreme. Parlo dei Proteus 911, band attiva agli inizi degli anni 2000 e formata da tre musicisti che sfuggivano sicuramente ai cliché dell’epoca.

La formazione ha sempre mantenuto attorno a sé un’aurea surreale e misteriosa, caratteristica che influiva indiscutibilmente anche le loro scelte sonore. Ne faceva parte il sound engineer e polistrumentista Massimiliano Gallo, capace di passare da momenti melodici raffinati e curati nei particolari fino a taglienti sferzate di chitarra distorta all’ennesima potenza, Victoriano Labanchi il bassista, nelle strutture musicali che mi ritrovo ad ascoltare, crea ipnosi continua, passando da ritmi marcati a melodie che ben si intrecciano con armoniosa perfezione alle corde elettrificate di Massimiliano.

Macchina ritmica indiscussa Cristian Motta, con la batteria si destreggia in volteggi poliritmici ammiccanti, alternati da momenti potenti e serrati. La band negli anni di attività ha solcato i palchi delle più importanti rassegne nazionali e ha condiviso il palco con band di tutto rispetto come gli Shellac (USA), Karate (Usa) ,A short Apnea, Devics (USA), Joe Leaman, Les Enfants rouge, Steve Albini, Sparklehorse, R.E.M. 

Si è inoltre esibita sul palco del MEI e su quello del Neapolis Festival, ha vinto Arezzo Wave e si è ben qualificata al concorso Rock Targato Italia. Ma veniamo ai due dischi in questione: la band esordisce con un EP dal nome “Sinfonie dal mondo delle cose perse”, che è stato a lungo nei Virgin Stores di Londra e in rotazione nelle radio della stessa città e “Apòkrifos“, apprezzato non solo dalla critica dell’epoca ma anche dal pubblico che si classifica al secondo posto nello speciale premio dedicato ai migliori dischi esordienti su oltre 300 esordi.

Il primo lavoro è autoprodotto; affascinante e curioso sapere che le riprese sono state effettuate in un vecchio fienile con un registratore Fostex a nastro, dando quel suono analogico avvolgente che tanti cultori e musicofili amano. In Apòkrifos spicca l’ottimo lavoro svolto in fase di produzione da Fabio Magistrali: fonico tra i più stimati dell’underground italiano che ha lavorato con artisti del calibro degli Afterhours, Scisma, Cristina Donà, il “primo” Bugo, Marta sui Tubi e molti altri. Una curiosità degna di nota è che Magistrali nel 2004 quando fu insignito al MEI come miglior produttore, rifiutò il premio. La prima cosa che colpisce in entrambi i dischi è l’approccio minimalista, caratterizzato da un continuo cambio di ambientazioni. Passando da momenti di avvolgente e onirica quiete, ad altri di puro “noise” e sonorità che possiamo definire quasi industrial. Le composizioni creano tensione e sorpresa continua tenendo l’ascoltatore inchiodato. 

I Proteus sono stati una band di poche parole ma di molta musica, infatti troviamo totalmente assente la forma canzone nelle strutture suonate. Per dare spazio ad armonici, suoni calmi e sussurri che si trasformano repentinamente in passaggi dissonanti, chitarre distorte e molto effettate.  Composizioni che saturano l’aria fino a penetrare nelle cellule, stabilizzando e destabilizzando in base all’andamento dello scorrere del brano. Nulla è lasciato al caso e tutto viene concepito su una base concettuale, ma di questo ne parleranno meglio i diretti interessati nella breve intervista che segue. Ma ricordiamo prima anche il loro terzo disco: “Where Roses Fall”, uscito un po’ in sordina a cavallo tra il 2007 e il 2008. Album che si distingue dai precedenti, e nel quale si evince una maturazione artistica straordinaria. Si sente già dal primo ascolto un attento lavoro di armonia, tanto da essere apprezzato molto anche dalla critica specializzata. Disco che fu distribuito da una label inglese, e chiude il cerchio sulla discografia della band. 

In quali sottoboschi prende vita la formazione, quale era lo scenario che si viveva all’epoca e cosa vi ha spinto a intraprendere questo progetto musicale.

Tra la fine degli anni 90 e l’inizio del secolo successivo esisteva un vasto panorama creativo in cui non per forza bisognava rientrare in una specifica corrente artistica; questo lasciava spazio alla possibilità di non doversi per forza adeguare a qualcosa di già noto, così l’esigenza personale di poter tradurre in una scelta artistica il proprio sentire poteva esprimersi senza subire il peso dell’appartenenza! In questa dimensione di libertà si è potuto costruire con coraggio e dedizione un “progetto sonoro“ intimo, dove l’elemento fondamentale era il riuscire a tradurre in suono con la massima fedeltà i propri mutamenti interiori . Da qui la caratterizzazione stilistica di rendere le trame musicali imprevedibili e con continui cambi di ambiente.”

Perché la scelta di comporre brani strumentali e non seguire la tendenza della maggior parte delle band italiane dell’epoca che prediligevano la forma canzone?

Le atmosfere che conducevamo a manifestazione si coniugavano con una logica dedita all’esplorazione di terre non completamente emerse. In questo senso la voce quando presente doveva naturalmente rientrare in queste premesse! La forma canzone poco si sarebbe prestata a rispettare questo intento, si trattava di far emergere qualcosa assicurandosi che qualcos’altro restasse sommerso, questo forse può spiegare il modo di intendere le nostre composizioni e soprattutto la modalità con cui la voce le sfiorava… La voce è uno strumento fantastico, ma noi volevamo separarla dal “linguaggio”, che invece indica spesso una chiave interpretativa della composizione che a noi non interessava.

 Nel titolo del primo disco si legge il termine “sinfonia”, parola che viene usata prevalentemente nella musica classica, è stata una scelta ben precisa?

Direi di si, era un periodo in cui i nostri ascolti erano prevalentemente “classici”. Ascoltavamo tanta musica classica, non avevamo le influenze tipiche delle rock band, gli ascolti più contemporanei sono venuti dopo, a seguito dei concerti e dello scambio con altri gruppi musicali. Come musicisti non avevamo percorsi accademici alle spalle, suonare per noi è significato emanciparsi dalla realtà del piccolo paese di provincia, era “un’esigenza esistenziale” piuttosto che il desiderio di essere una rock band o avere successo, la nostra scelta stilistica è la conferma a tutto ciò, ci bastava suonare quello che riuscivamo ad estrapolare dai nostri strumenti senza identificarci in qualcosa di preciso.

Quali idee concettuali celano le composizioni e le scelte sonore?

Una su tutte la “chiave esoterica”. La musica dei Proteus 911 è tutta basata sul concetto di esoterismo, inteso come “segreto” che non può essere immediatamente rivelato, che si nasconde nelle trame sonore e parla ad un livello di coscienza più profondo. Questo aspetto era ben chiaro nelle nostre menti.  A volte il flusso sonoro è delicato altre volte è traumatico e devastante. Direi che i tre dischi sono lo specchio di questo, si passa dal sogno di “Sinfonie dal mondo delle cose perse”, ai turbamenti della psiche di Apòkrifos fino alla risoluzione armonica di “Where Roses Fall”.

Come avete conosciuto Fabio Magistrali, com’è stato collaborare con lui? Quale era il rapporto?, un aneddoto.

Fabio l’abbiamo conosciuto a Napoli durante un festival ad Officina 99’ dove entrambi suonavamo. Fu un incontro folgorante, ci siamo piaciuti subito. Noi volevamo registrare tutto in presa diretta nel nostro fienile in campagna e lui era l’unico in Italia a poter fare una roba del genere. Registrammo tutto su nastro e in presa diretta. Fabio è geniale, ha firmato dischi memorabili in Italia e poi ha mandato tutto a “fare in culo”, perché l’evolversi della discografia era incompatibile con la sua idea di musica e di lavoro. Era “allergico” agli stereotipi di qualunque genere. Col senno di poi, visto il declino della discografia, ci sentiamo privilegiati di aver fatto un’esperienza discografica con un produttore “old style” come Magistrali.

Raccontatemi l’emozione di salire sul palco del Neapolis con le migliori band del panorama.

“E’ stato sempre tutto emozionante, sono stati anni intensi, specie perché noi eravamo giovanissimi e spesso suonavamo con gente che aveva anni di carriera alle spalle. Eravamo anche molto introversi e riservati, ogni esibizione era un rituale, indipendentemente dal contesto. Poi abbiamo avuto la fortuna di ritrovarci in palchi enormi come il Neapolis, davanti a migliaia di persone.

Quale futuro ha la musica secondo il vostro punto di vista.

La musica è eterna e lo sarà anche dopo “l’uomo”. Non siamo gli unici esseri viventi a manipolare i suoni creando strutture sonore più complesse. La musica è passato, presente e futuro. E’ cambiata la fruizione della musica, oggi i contesti sono quasi totalmente virtuali e questa è una cosa che influisce molto sull’aspetto artistico di un musicista, un “concept album” da ascoltare “tutto ad un fiato” nelle piattaforme digitali è quantomeno arduo. L’ascolto è molto più fugace e “volatile” e bisognerebbe rimediare a questa assurda modalità di fruizione offrendo alternative tecnologiche efficaci. Noi abbiamo fatto 3 dischi in 10 anni di attività, un’utopia di questi tempi in cui devi essere sempre presente nella rete e dove il senso del “pubblicare un disco” si riduce spesso a qualche post sui social. Non è roba per i Proteus 911.”

a cura di Biagio Accardi

— Onda Musicale

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