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Blue Öyster Cult, l’indimenticabile debutto di una band di culto

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La cover di Blue Oyster Cult

Negli anni ’70 il rock si legò spesso e volentieri a tematiche esoteriche e dark; se in Gran Bretagna i Black Sabbath legarono il grande successo a temi satanisti, di là dall’Oceano i loro epigoni furono i Blue Öyster Cult.

Se oggi associare il rock più pesante, heavy metal e i tanti sottogeneri, a questo tipo di argomenti è roba di tutti i giorni, all’epoca dei Blue Öyster Cult la cosa faceva ancora discreto scalpore. Non solo, la band di New York è tra le prime – e poche – americane a legare concetti complessi al rock.

Non è un caso che dietro la formazione della band si celi la lunga mano di Sandy Pearlman, paroliere e critico musicale. L’uomo, vero componente occulto del complesso, stava dietro anche al debutto dei Pavlov’s Dog, una delle rarissime realtà progressive d’America.

Sì, perché se è vero che gli Usa dettero la stura al fenomeno del rock’n’roll, il loro contributo agli sviluppi più intellettuali fu scarso. Il rock progressivo fu un movimento essenzialmente britannico, con varie propaggini europee; troppo complicate le strutture concept dei testi e i contorni colti delle composizioni per il pubblico da stadio statunitense.

I Blue Öyster Cult nacquero proprio per iniziativa di Pearlman, quasi a tavolino. Il critico aveva assistito casualmente a una jam session di alcuni ragazzi e li convinse a fondare una band; il suo progetto era quello di proporre qualcosa di diverso ai soliti progetti anni ’60, incentrati su ideologie pacifiste e hippie. Fin dall’inizio, quindi, l’approccio è allo stesso tempo blandamente intellettuale e intrinsecamente reazionario.

Il primo nucleo è composto dal chitarrista Donald Roeser, il batterista Albert Bouchard, il tastierista Allen Lanier, i cantanti Jeff Kagel e Les Braunstein e il bassista Andrew Winters.

Da subito Pearlman si dà da fare come manager, sfruttando le sue conoscenze per ottenere ingaggi e – più in là – un contratto con l’Elektra.

Il primo nome della band è Soft White Underbelly e – come sempre – è scelto da Pearlman; il moniker si rifà al Ventre molle dell’Asse, definizione poco lusinghiera che Churchill diede all’Italia nella Seconda Guerra Mondiale. I Blue Öyster Cult compiono un lungo rodaggio durante il quale la formazione si trasforma; nel 1972 si assesta con Eric Bloom alla voce e l’ingresso di Joe Bouchard – fratello di Albert – al basso.

Nasce la line-up storica dei Blue Öyster Cult e il gruppo è pronto a registrare il primo album nel 1972. La formazione non è l’unica cosa a cambiare: una storia a parte la merita il nome. Una pessima recensione dei Soft White Underbelly spinge il machiavellico Sandy Pearlman a cambiare ragione sociale; si passa così da Oaxaca a Stalk-Forrest Group. Infine, Blue Öyster Cult.

Il celebre moniker deriva, tanto per cambiare, da una vecchia poesia di Pearlman; il Blue Öyster Cult è un gruppo di alieni che comanda segretamente i destini della terra. Il nome non convince i membri della band, che tuttavia si adeguano ai voleri del leader occulto. Anni dopo, Pearlman racconterà che il nome viene da un anagramma di Cully Stout Beer, una marca di birra.

Anche la tematica esoterica e a tratti criptica, di ambientazione aliena, è farina del sacco di Sandy. Se in Gran Bretagna i Black Sabbath avevano sdoganato una sorta di satanismo di facciata, che sottintendeva spesso tematiche sociali, i Blue Öyster Cult tentano di fare lo stesso con astronomia e UFO. Lo fanno all’americana, ovvero mantenendosi sulla superficie della questione.

L’esoterismo dei Blue Öyster Cult, al di là dell’incomprensibilità di alcuni testi, non nasconde chiavi di lettura; il rock che ha in mente Pearlman è puro intrattenimento per adulti affascinati da temi esoterici e stanchi di chi intende la musica come mezzo per la riflessione e per cambiare il mondo.

A questo punto manca solo un’accattivante parte grafica. La cover del primo album è affidata a Bill Gawlik e suggestiva benché di difficile interpretazione. Gawlik è anche l’ideatore del logo, che riprende il simbolo alchemico del piombo – non a caso un metallo pesante – e simbolo del Crono mitologico. L’idea di aggiungere un umlaut sulla O (i due puntini) è infine di Allen Lanier. Un’usanza che farà proseliti nel mondo del metal.

Il disco di debutto, che porta il nome della band come titolo, viene registrato nell’ottobre del 1971 agli studi Warehouse di New York; i musicisti sono multistrumentisti di primordine e l’album ha un buon successo, pur senza sfondare.

I pezzi sono quasi tutti scritti da Pearlman per i testi e dalla band al completo per le musiche; il sound risente ancora molto degli anni Sessanta, tra garage e psichedelia, quando non cantautorato, il tutto rivestito da una patina hard rock.

L’esordio dei Blue Öyster Cult si apre con Transmaniacon MC. Basta spingere sul tasto play e ci si trova subito di fronte a un riff granitico alla maniera dei Deep Purple, molto simile a quello di Mandrake Root; presto si inserisce un secondo riff di Donald Buck Dharma Roeser, pulito e chirurgico, prototipo di decine di riff del futuro metal.

È però solo una patina, in realtà quando parte la vera canzone, quella cantata, pare quasi una ballata alla Dylan, solo con un arrangiamento molto più pesante. La sezione centrale offre un assolo pirotecnico di Buck Dharma, che finisce per confluire nel riff iniziale e introduce la seconda parte. Il testo è ispirato al famigerato concerto di Altamont, quello in cui un membro degli Hell’s Angels uccise uno spettatore durante il set degli Stones.

La canzone finirà per ispirare anche un romanzo di fantascienza di John Shirley del 1979, intitolato Transmaniacon.

I’m on the Lamb but I Ain’t No Sheep si muove sulla stessa falsariga del primo pezzo, con accenti ancora più rock blues. Particolarmente azzeccata l’interpretazione vocale di Eric Bloom, molto suggestiva. La chitarra di Roeser rimane qui su terreni più congeniali, una sorta di blues accelerato e spaziale. Secondo molti il riff cela più di un’ispirazione da Frying Pan, un pezzo di Captain Beefheart del 1966. Più che hard rock o heavy metal, in questo brano paiono chiare le influenze dei primi ZZ Top e – in senso più lato – di Jimi Hendrix e dei Cream.

Si arriva a quello che forse è il pezzo forte del disco e uno dei cavalli di battaglia dei Blue Öyster Cult: Then Came the Last Days of May. Il brano è una tipica ballad rock in cui Buck Dharma sfoggia tutte le sue abilità, specie dal vivo. L’andamento è abbastanza lento e per una volta la melodia è cristallina. La canzone è cantata dallo stesso Roeser, che è l’unico autore del pezzo. Il testo fu ispirato al chitarrista da un’oscura vicenda di cronaca avvenuta in Arizona; tre ragazzi si recarono a Tucson per acquistare della droga da rivendere a New York ma finirono vittima di un agguato. Solo uno dei tre ragazzi riuscì a salvarsi.

Casualmente, il giovane era un conoscente di Buck Dharma che scrisse la canzone basandosi sui resoconti di un giornale locale; un brano che dopo cinquant’anni non ha perso nulla della sua suggestione.

Stairway to the Stars riporta la musica su livelli più sostenuti; annunciato da un riff boogie che ricorda La Grange degli ZZ Top, il pezzo si muove su ritmi anfetaminici. Siamo dalle parti dei Deep Purple più caciaroni, quelli che partono dal blues per le loro acrobazie musicali. Certo, in questo senso i Blue Öyster Cult suonano un po’ meno efficaci di Blackmore e compagni, tuttavia il brano sfoggia un tiro micidiale. Le parti di chitarra sono roventi, pur non discostandosi da un grezzo hard boogie da stadio.

Before the Kiss, a Redcap è di nuovo uno spettacolare rock blues; se i riff sono di nuovo di marca Deep Purple, l’espediente della chitarra che doppia il canto ricorda molto da vicino la I Want You (She’s So Heavy) dei Beatles. La sezione centrale è occupata da un curioso cambio di ritmo, quasi jazzato, che mette in mostra ancora una volta la duttilità degli strumentisti. Il testo narra di un peculiare passaggio di flurazepam, una benzodiazepina diffusa all’epoca, per mezzo di un bacio. Alla voce ancora Donald Buck Dharma Roeser.

La seconda facciata si apre con Screams, curioso episodio psichedelico scritto e cantato dal bassista Joe Bouchard. Il ritmo è all’inizio lento, la voce pesantemente filtrata con un effetto phasing; la velocità aumenta vertiginosa e un assolo psichedelico dell’onnipresente Dharma riconduce tutto alla traccia iniziale.

She’s As Beautiful As a Foot è una parentesi inusuale nel debutto dei Blue Öyster Cult. Un pezzo di difficile classificazione, tra psichedelia oscura e anticipazione di certo rock anni Novanta. A un certo punto pare quasi di stare tra il grunge e lo stoner; il problema è che il rock degli anni Novanta spesso non sia gran cosa, e il brano risulta abbastanza disorganico e dimenticabile.

Cities on Flame With Rock and Roll è invece un altro cavallo di battaglia del complesso.
Il pezzo è cantato da Albert Bouchard, il batterista dei Blue Öyster Cult; verrebbe da dire purtroppo, visto che la sua prestazione vocale non è proprio da antologia. Il pesantissimo riff – molto bello – è ispirato alla mitica The Wizard dei Black Sabbath.

Il drumming di Bouchard fa pensare a tratti ai Led Zeppelin, fino al ritornello che si apre in un boogie da cantare in coro allo stadio. Come al solito il lavoro alla chitarra di Roeser è molto centrato, con una serie di frasi che non si discostano dalle scale blues. Qualcuno ha parlato di rockabilly spaziale, riferendosi alla sua tecnica: non male come definizione.

Il pezzo rimane un vero cult dal vivo, abbreviato in Cities on Flame; in luce anche l’organo di Lanier, poco presente in questo disco di debutto.

Workshop of the Telescopes torna a far parte della saga aliena narrata dall’istrionico Sandy Pearlman; il ritmo è sostenuto e il testo criptico, mentre il ritornello è quasi epicamente melodico. Di nuovo un brano dalla struttura pop che vanta però una patina di hard rock. La chitarra di Roeser si tinge qui di colori psichedelici – sfoggiando anche qualche ottava – pur sempre senza avventurarsi in nulla di troppo complesso.

La conclusiva Redeemed è invece una chiusura davvero inaspettata. Praticamente un pezzo country in tutto e per tutto, perfino negli arrangiamenti e nell’assolo di chitarra, appena più robusto del necessario. Come in altri pezzi, pare quasi un brano di Dylan rivisto con un arrangiamento più elettrico. Le liriche sono di Harry Farcas, autore slegato dalla band, e pare fossero in parte ispirate al suo cane San Bernardo.

Il debutto dei Blue Öyster Cult si chiude così, lasciando l’impressione di aver ascoltato un disco importante ma a tratti un po’ disomogeneo e artefatto. Per tutta la critica, i ragazzi cresciuti nell’undergound di New York faranno meglio con gli album seguenti; Tyranny and Mutation, dell’anno dopo, è per molti il loro capolavoro.

Questo esordio, però, pur non vendendo tantissimo, lascia il segno; alcuni pezzi sono destinati a diventare veri must per i concerti e gettano i semi per l’inquietante iconografia di questa band – a suo modo – fenomenale.


— Onda Musicale

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