Bruce Springsteen presenta la sua autobiografia e attacca il candidato repubblicano alla Casa Bianca Donald Trump: “Terribile per la democrazia anche se non vince”.
«Devo aver già autografato settantamila copie del mio libro, forse è un record mondiale», dice Bruce Springsteen, impegnato in questi giorni nell’unico tour che non aveva mai fatto, quello delle librerie. «È stato strano per me concludere il libro e non trasformarlo in concerto. Ci ho messo sette anni a scriverlo e mi ha un po’ sorpreso che quando l’ho finito, non si è levato neppure un applauso», aggiunge. Forse scherza, o forse questo è il motivo per cui sta girando gli Usa, e un po’ anche l’Europa, per parlare dell’autobiografia che ha intitolato come la sua canzone più rappresentativa, Born to Run , e per incontrare i lettori.
«Non posso dedicare più di dieci secondi a persona – dice – ma è un’esperienza nuova e bellissima per me, vedere i fan uno a uno negli occhi. Che mi dicono? In genere ringraziano, raccontano che una delle mie canzoni li ha aiutati in un momento difficile della vita, cose così. E il bello è che potrei dire lo stesso: ricordo bene, per esempio, la prima volta che ascoltai Bob Dylan. Sarà stato il ’65, quando Like a Rolling Stone arrivò alla radio. Fu una rivelazione: nessuno parlava del nostro Paese in modo cosi tangibile, così vero. Se lo chiedete a me, vi dico che il Nobel è meritatissimo. Quando noi non ci saremo più, il mondo si ricorderà ancora di Bob Dylan. Io al confronto sono solo uno che viaggia dentro la musica, uno che lavora duro».
A forza di lavorar duro, Bruce Springsteen, 67 anni, americano del New Jersey, cognome olandese, origini irlandesi e italiane, con il suo libro è in vetta alle classifiche dei best seller degli Stato Uniti e dei principali Paesi europei, Italia compresa. E ad ascoltarlo a Londra nell’unico incontro previsto con la stampa continentale non manca nessuno. Tra il centinaio di giornalisti presenti nel teatrino del Centro per le arti contemporanee c’è perfino Nick Hornby, che di tutti qui è l’invidiato eroe. Dopo Bruce Springsteen, naturalmente.
«Nel 2009 – racconta Springsteen – ci chiamarono a suonare nell’intervallo del Superbowl. Fu un’esperienza pazzesca, il contrario di tutto ciò che avevo fatto fino ad allora. È la serata in cui ti giochi tutto davanti a milioni di spettatori e anche quella in cui non hai il controllo su niente. Invece che otto ore, hai otto minuti per preparare lo show, invece che quattro ore suoni per dodici minuti. Lì, per la prima volta ho alzato lo sguardo e invece del tetto di uno stadio o un palasport, ho visto il cielo e le stelle. In quel caos, al centro dello stadio, ho avuto un momento di felicità assoluta, è scattato quel click che cerco ogni sera, ma in maniera più spettacolare del solito. Per questo mi è venuto spontaneo raccontarlo, scriverlo. Poi ho scoperto che mi è piaciuto farlo, ho pensato che avrei dovuto raccogliere un po’ di ricordi per i miei figli e non mi sono più fermato».
Tutti quanti – Hornby compreso, probabilmente – siamo qui per capire che ne sarà dello Springsteen più leggendario, quello dei concerti e delle maratone dal vivo, quattro ore a inanellare canzoni. La scrittura dell’autobiografia, che lui stesso collega all’esperienza trentennale della psicanalisi, il racconto dettagliato degli episodi depressivi di cui soffre e delle crisi di pianto degli ultimi anni, sono il preludio a un commiato, o alle dimissioni da rockstar, come direbbe un suo emulo italiano? La risposta è: no. «Da un punto di vista fisico – dice Springsteen – mi sento come quando avevo quarant’anni. Suonare dal vivo è l’impegno della mia vita, è ciò che so fare e dà senso alla mia esistenza. I concerti mettono il tempo in pausa, lo fermano o, se tu vuoi, lo accelerano, ti portano nel futuro oppure nel passato, ti permettono di andare dove vuoi e se sei fortunato di condurre con te migliaia di persone. Come posso rinunciare? A lungo sono stato anche convinto che suonare per ore e ore dal vivo fosse utile a combattere la depressione: per quei dubbi, quelle domande su te stesso irragionevoli e improduttive tipiche della malattia devi avere tempo ed energia. Quando scendi da un palcoscenico dopo quattro ore di show non hai le forze per essere depresso».
Gli chiedono di Donald Trump, che qualche giorno fa ha definito «un imbecille». Ora dice: «Lo trovo spaventoso, terribile per la nostra democrazia anche se non vince». Ma si capisce che gli preme più parlare di suo padre Douglas, che per tutta la vita non è mai riuscito ad avere un lavoro stabile, dal quale ha ereditato i problemi mentali. È questa la politica che lo appassiona ora: «Si dice che gran parte del rock’n’roll non sia altro che il grido di un bambino che cerca l’attenzione del padre. Per quanto mi riguarda è così. Però il libro l’ho scritto anche per rendere giustizia a mio padre, per spiegare che certe canzoni erano finzione, che lui non era così. Non sempre, non nell’ultima parte della sua vita. Glielo dovevo (il padre è morto nel 1998, sua madre Adele ha 91 anni ed è malata di Alzheimer, ndr), in America diciamo “ciò che non hai, lo imiti” e questo è stato vero per me. L’amore che sentivo di non avere da lui lo portavo in scena nei concerti, è stato comunque un’ispirazione».
È così che accade, quando si comincia a raccontare: si va all’inizio di tutto, alla radice. Ecco perché Born to Run (il libro) finisce con una preghiera, un Padre Nostro pronunciato sul luogo in cui sorgeva la poverissima casa del piccolo Springsteen: «Dai sei ai quattordici anni sono stato a scuola dalle suore, la Bibbia ha formato la mia lingua, il cattolicesimo, con i suoi concetti di peccato, redenzione, dannazione eterna, salvezza, ha formato il mio immaginario. Anche scrivendo questo libro, ho capito che io sono quello, perfino le mie canzoni sono cattoliche, hanno una strofa che è blues, è lavoro, è preghiera, e un ritornello che è beatitudine gospel. E che tutte le mie canzoni non sono che una lunga e rumorosa preghiera».
(fonte: www.lastampa.it – link)