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Ecco perché ci mancherà Charlie Watts…

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La santificazione post-mortem è forse l’ultimo dei vizi che la maggior parte delle rockstar continua a potersi permettere alla fine di una vita condita da ogni eccesso.

Farne una al compianto Charlie Watts, stabile perno di quel carrozzone chiamato The Rolling Stones (e non solo), non sarebbe né immeritato né inopportuno. Eppure Charlie è uno che dei vizi e degli estremismi del rock era riuscito ad assaporare solo quanto di più delicato, straordinariamente normale e modesto (nei limiti possibili di “modestia” per una delle 50 rockstar più ricche del pianeta), rivestendo di velluto e abiti di percalle anche il più spigoloso dei mali, come la difficile dipendenza dall’eroina in cui era sprofondato nel mezzo degli anni Ottanta.

A dire il vero, guardandosi indietro, ci sarebbe da dire che la santificazione Charlie deve essersela guadagnata già in vita: chi, se non un “Santo”, avrebbe potuto resistere alle mefistofeliche tentazioni della stardom; agli infiniti privilegi sessuali piovutigli dal cielo a favore della stabilità coniugale con sua moglie Shirley; ma soprattutto, alla voglia di strangolare dei colleghi di band che definire “scapestrati” sarebbe eccedere in eufemismi? Di pazienza Charlie deve averne avuta molta, così come di disinvoltura mostrata anche nelle situazioni più imbarazzanti, nella vita così come sul palco. E così la fine silenziosa e delicata del “principe dolce” (come lo ha definito Eric Clapton), sembrerebbe ricalcare la medesima disinvoltura con cui nel corso dei concerti era stato solito togliere le castagne dal fuoco di fronte agli impacci di qualche fuori tempo o bislacco incidente di troppo. Un annuncio sui social “questa volta sono andato fuori tempo” – aveva dichiarato il batterista rispetto al suo non prendere parte nell’immediato al nuovo tour americano con gli Stones – e poi la silenziosa sparizione, discreta, diafana, quasi beata, con la richiesta da parte della band del maggior rispetto possibile della privacy, bene che alle rockstar è spesso negato.

Così se ne è andato Charlie Watts, e con lui – mi sento male a scriverlo – anche i Rolling Stones diventano mortali

È vero, lo spettro della morte pervade l’intera vicenda umana e artistica della band, Brian Jones ha lasciato questa terra da più di qualche tempo, ma lì c’era qualcosa di magico, dannato e immortale anche nel morire. Questa volta sembra diverso, più definitivo, forse anche più consueto. Charlie ha normalizzato perfino l’anormale dei Rolling Stones al punto da trasformare anche il chiasso irrazionale di Keith Richards in un inusuale silenzio: posta una foto del celebre kit di batteria dell’amico su cui pende un’etichetta per le vetrine dei negozi con su scritto “chiuso”.

E il futuro?

Ora tutto è lecito: aspettarsi il tanto preannunciato nuovo album di inediti della band (con le ultime probabili incisioni di Charlie); il proseguo dell’attività live, anche dopo tour autunnale del 2021 con Steve Jordan alla batteria (forte della storica partnership con Keith Richards e gli X-Pensive Winos); i concerti “in memoria di”…; o la decisione di fermare la frana di pietre che rotolano da quasi sessant’anni dall’Alpe alle Piramidi (letteralmente). Tutto è lecito e nessun biasimo è possibile, quel che è certo è che le cose non saranno più le stesse, come lo stesso Charlie sembrava prevedere qualche anno fa: “potrebbero trovare facilmente dei sostituti anche se non so se la cosa sarebbe poi la stessa. Gli Who non furono più gli stessi senza Keith Moon, ma Keith era veramente un personaggio”. Certo, cos’è una vita umana rispetto ai Rolling Stones? Del resto, sono sopravvissuti – e forse ne sono stati rinforzati – alla morte di Jones, così come ai cambi di guardia di gente come Bill Wyman o Mick Taylor. Sopravviveranno anche alla scomparsa di Charlie, magari lo perdoneranno così, forse.

È un “forse” d’obbligo, perché a compiere un’attenta retrospettiva del sound della band, non si potrà fare a meno di notare come minimo denominatore comune a tutte le infinite fasi della carriera dei Rolling Stones sia stato proprio il suono di batteria di Charlie Watts. Dal caos degli esordi sgangherati, in cui l’eredità del repertorio Jazz e Rhythm and Blues aveva permesso di andare avanti all’intero carrozzone, fino ai maldestri tentativi di percussione espediti tra Beggar Banquets ed Exile on Main St., dal minimalismo anacronistico come tratto distintivo (rispetto al deflagrare di virtuosismi alle pelli dei vari figli del rock); alla durata inusitata di un sound ormai atipico ma in grado di garantirsi generazioni di successo quasi identitario.

Gioco di incastri

Si dice che l’inimitabilità del sound degli Stones stia proprio nel gioco di incastri e rotture che intercorreva tra gli accordi aperti di Keith Richards e la batteria di Charlie Watts, che il suono costantemente precario della band fosse frutto di un leggero sfasamento della ritmica, in cui la batteria sembrava seguire la chitarra e non il contrario. Suonare così non è semplice, né scontato, e la miriade di imitatori degli Stones – professionisti o dilettanti – possono testimoniarlo. La perfezione non è di casa Stones, né l’umiltà, tuttavia: quanti batteristi accetterebbero di suonare in questo modo? Keith Richards ci ha tenuto spesso a puntualizzare che il sound delle sue band soliste fosse diverso da quello degli Stones solo per la mancanza della voce di Jagger, eppure nemmeno l’ottimo Steve Jordan riesce a incastrarsi con la sua chitarra come con Charlie. Chi subentrerà a Charlie – per ora sarà lo stesso Jordan – nel corso dei concerti, non dovrà fare i conti con l’eccesso di tecnica, potenza, virtuosismo personale; ma con la capacità di ricreare un sound estremamente identificativo, caratteristico, prestato agli equilibri della band, in grado di dare disciplina all’indisciplinabile.

A Charlie è bastato poco per creare il timbro della band più longeva del pianeta

Una piccola batteria della Gretsch del 1957 fornita di due tamburi, un rullante e una grancassa. Come testamento basti ricordare il suono secco e risuonante del rullante nell’intro di pezzi come “Get Off of My Cloud” o “Paint It Black”; la semplicità scheletrica e compassate dell’intera ritmica di “Street Fighting Man” (registrata addirittura con una batteria giocattolo); gli stop and go senza una precisa logica di “Midnight Rambler”;  gli ammiccamenti disco di “Miss You” senza mai stravolgere la propria matrice Rhythm and Blues .Ogni aggiunta sarebbe fastidiosa oltre che superflua, ogni eccesso nel suono inopportuno: quelli se li tengano Mick, Keith e Ronnie per la loro vita privata.

Tutto questo sarà insostituibile e ci mancherà, ci mancherà tantissimo

Così come ci manca già quel fare signorile, disinvolto; quell’aria di chi sembra dire perennemente: “ma che cosa ci faccio io qui con loro?” in ogni foto, concerto, videoclip e canzone; così come quel voltarsi di Mick, Keith e Ronnie dando le spalle al pubblico per capire verso dove fare cadere la prossima pietra guidati da quel campione di stile e discrezione a traino di una band di scalmanati in perenne via d’estinzione. Ho sempre pensato che per quanto il mondo andasse a rotoli: “almeno ci sono ancora i Rolling Stones” a far baldoria da qualche parte.

Oggi è ancora così ma è un po’ diverso… e forse un po’ meno bene mi sento anche io.

Ciao Charlie, “Shine a light on you!”

(a cura di Matteo Palombi)

— Onda Musicale

Tags: Eric Clapton/The Rolling Stones/Keith Moon/Charlie Watts
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