Use Your Illusion I e II dei Guns N’Roses sono ancora due dischi che fanno discutere nel bene e (soprattutto) nel male.
Oggi si stenta a crederlo, ma trent’ anni fa l’invito dei Guns n’ Roses a “sfruttare la nostra illusione” (o a usare la nostra immaginazione?) riuscì a trasformare una delle combriccole musicali peggio assortite della storia – praticamente un’accozzaglia di teppisti poco istruiti e quasi sempre strafatti – nella più grande rock band del pianeta.
Come praticamente quasi tutti sanno, i Guns N’ Roses nascevano nel 1985 dall’unione tra due band di Los Angeles: gli L.A. Guns e gli Hollywood Rose. In quest’ultimi militavano ben due di quelli che sarebbero poi diventati i membri fissi della band, ovvero Izzy Stradlin alla chitarra ritmica e soprattutto il leader e cantante William Bruce Rose Jr., ribattezzato Axl Rose – che come forse stavolta non tutti sanno è l’anagramma di Oral Sex.
Nel giro di pochi mesi si aggiungeranno anche gli altri membri della formazione “storica”, ovvero Duff McKagan al basso, Steven Adler alla batteria (sostituito poi da Matt Sorum perché troppo fatto per continuare) e Slash alla chitarra solista.
Forti dello strepitoso successo ottenuto con l’album d’esordio – Appetite For Destruction del 1987 – seguito poi dal meno fortunato Lies del 1988, il 17 settembre del 1991, allo scoccare della mezzanotte, I Guns n’ Roses decidono di sganciare sul mercato una vera e propria bomba contenente un totale di 30 canzoni per 150 minuti di musica. Oggettivamente troppa e non sempre di alta qualità.
Come ha puntualizzato il critico Eric Weisbard, che a Use Your Illusion ha dedicato un intero saggio, parlare di questo doppio album come una cosa separata dal resto della produzione della band è praticamente impossibile, nonché privo di senso, perché tutti i brani dei Guns n’ Roses sono strettamente interconnessi tra loro e spesso sono nati durante le medesime sessioni di registrazione.
Tecnicamente non si trattava di un vero e proprio album doppio, ma di due album separati dal titolo consequenziale – Use Your Illusion I e Use Your Illusion II – pubblicati con la stessa immagine di copertina di colore diverso: arancione per il primo sogno lucido e blu notte per il secondo.
Al loro interno ci sono hit immortali come Dont’ Cry, November Rain ed Estranged (che nelle intenzioni iniziali avrebbero dovuto costituire una sorta di trilogia video-narrativa su cui torneremo più avanti), nonché il primo singolo lanciato insieme alla colonna sonora di Terminator 2 – You Could Be Mine – e le due famosissime cover di Bob Dylan e Paul McCartney sotto testosterone: Knockin’ On Heaven’s Door e Live and Let Die, ovvero Bussando alle porte del paradiso, vivi e lascia morire – quasi un haiku giapponese che si fa sintesi perfetta della parabola della band. Perché tutta la storia dei Guns alla fine non è stata altro che un tentativo ostinato di sfondare quelle benedette(e maledette) porte: l’inseguimento di un sogno (Use your illusion?) per accedere a un paradiso (infernale) (Take me down to the paradise city?) in cui vivere (e morire) di musica senza regole e senza troppe scocciature (This fire is burnin’ and it’s out of control/ It’s not a problem you can stop / It’s rock n’ roll).
Di certo, la pubblicazione di trenta canzoni in un’unica botta fu una mossa ambiziosa anche per un gruppo in ascesa in un periodo musicalmente florido come quello del 1991, ricco di nomi forti e di dischi-blockbuster come il Black Album dei Metallica, Achtung Baby degli U2 e soprattutto Nevermind dei Nirvana – con i quali i Guns diedero vita a una vera e propria faida che andò ben oltre la normale rivalità tra band di successo. Si arrivò persino a far scoppiare un principio di rissa dietro le quinte degli Mtv Music Awards del ’92, ma questa è un’altra storia. Fatto sta che nessuno dei “Big” aveva osato tanto all’epoca, i Guns sì.
Perché loro volevano essere – o credevano di essere – ancora più “Big” degli altri. E la loro etichetta discografica – la Geffen – aveva intenzione di spremerli fino all’ultima nota possibile prima che si bruciassero da soli – cosa che in effetti fecero. Dopo UYI I e II, infatti, ci fu soltanto un ultimo album in studio dei “veri” Guns, il famoso incidente degli spaghetti (The Spaghetti Incident? del ‘93), ovvero un disco di cover con dentro svariati brani di gruppi punk come New York Dolls, Stooges, Dead Boys, Misfits, Damned, ecc., – evidente segnale del fatto che i Guns non disdegnavano il genere e non lo vedevano in contrapposizione con la loro musica come invece aveva ipotizzato una parte della stampa specializzata.
Ma tornando con la mente alla mezzanotte di quel 17 settembre 1991, qualunque opinione si abbia della band e della loro musica, una cosa resta innegabile: in quel preciso istante i Guns n’ Roses erano sul tetto del mondo e potevano – ahimè letteralmente – permettersi di pisciare in testa agli altri. Anche perché Nevermind uscirà soltanto la settimana successiva e quindi i Nirvana non avevano ancora avuto modo e tempo di buttarli giù. In realtà, considerando le doti di auto-sabotaggio e autodistruzione della band losangelina, sarebbe più corretto dire che da quel tetto i Guns ci si sono gettati da soli dopo averci girato su il video di Don’t Cry – nel quale tra l’altro Axl Rose indossa un cappellino dei Nirvana, a dimostrazione del fatto che inizialmente il leader dei Guns nutriva un sincero apprezzamento nei loro confronti.
Il problema è che la cosa non era reciproca. Anzi, Kurt Cobain non solo aveva declinato l’invito ad andare in tour insieme, ma sollecitato in merito aveva anche dichiarato
Sono persone veramente senza talento, e scrivono musica di merda, e adesso sono il gruppo rock più famoso della terra. Non riesco a crederci!”.
La distanza che li separava era solo in parte di tipo musicale (più vicini al punk rock/noise i Nirvana e più inclini all’air/heavy metal i Guns) poiché in realtà col tempo entrambe le band declinarono il loro genere di riferimento, piegandolo alla propria sensibilità, generando a loro volta nuove etichette o spostandosi dentro altre caselle preconfezionate, che lasciano sempre il tempo che trovano: il grunge – o più in generale l’alternative rock – da una parte e l’hard rock dall’altra. La vera differenza invece era da ricercare nei temi delle canzoni. Entrambe le band tiravano fuori una rabbia repressa, ma mentre quella di Kurt Cobain era rivolta verso l’interno (tanto da portarlo all’estremo gesto suicida nel ’94) quella di Axl Rose era una furia cieca rivolta tutta all’esterno. Axl, infatti, cercava i suoi nemici nel resto della società e in tutto ciò che era diverso da lui senza aver bene le idee chiare. A questo proposito, le sue parole più controverse sono quelle contenute in One In A Million, dove Axl se la prende un po’ a caso con afroamericani, omosessuali, immigrati e poliziotti:
Police and niggers (that’s right!) get outta my way […] Immigrants and faggots / They make no sense to me / They come to our country /And think they’ll do as they please / Like start some mini-Iran / Or spread some fucking disease.
Non fosse per la frecciatina ai poliziotti, a una prima traduzione letterale sembra quasi di sentir cantare un ministro della Lega. Questi versi negli anni sono stati poi riletti alla luce del disturbo bipolare di Axl e della particolare situazione di disagio famigliare in cui era cresciuto – ripetutamente abusato dal padre quand’era piccolo – ma naturalmente non sono mai stati giustificati, anzi al contrario sono sempre stati duramente e giustamente condannati. Stesso discorso per alcuni versi “poco gratificanti” (per usare un eufemismo), riservati alle donne, che secondo alcuni erano stati in parte fraintesi poiché (spesso?) derivanti dalla natura della sua precedente relazione con Erin Everly, insieme alla quale aveva sperimentato in maniera consensuale pratiche sessuali bondage e sadomaso. Se queste a volte erano esplicite e facilmente riconoscibili come in Pretty Tied Up, altre volte erano più o meno fraintendibili, anche se in un verso come “back off bitch / Down in the gutter, dyin’ in the ditch” credo ci sia davvero poco da fraintendere.
Kurt Cobain non aveva dubbi in proposito e aveva ribadito più volte che i GNR erano rozzi, misogini e sessisti (e facevano musica di merda). Insomma l’aveva toccata piano come si direbbe oggi. Ma lui la toccava sempre così e il triste epilogo della sua vicenda è lì a ricordarcelo.
Tornando al disco oggetto di questa disquisizione, passata la sbornia degli anni ‘90, possiamo dire che nella sua interezza l’album è invecchiato maluccio, inoltre l’estrema lunghezza dei singoli brani, ma soprattutto della loro somma, sembra averlo appesantito ulteriormente. Molto probabilmente se i ragazzi si fossero autolimitati e avessero tirato fuori un unico album di massimo dieci/dodici brani ne avrebbero cavato fuori qualcosa di più rispettabile anche a distanza di anni. In questi casi il giochino che viene fatto spesso da critici e fan è quello di provare a ridurre il numero delle tracce per creare la loro versione migliore dell’album.
Ora, quindi, non ci chiamiamo fuori, anzi “we get in the ring” (come direbbe Axl) e diciamo che se proprio dovessimo scegliere dieci brani per tentare di creare “l’illusione perfetta” di un buon disco, molto probabilmente la scaletta che ne verrebbe fuori sarebbe questa e la potete ascoltare qui:
- Right Next Door to Hell
- Live and Let Die
- Knockin’ On Heaven’s Door
- Don’t Cry
- November Rain
- Estranged
- You Could Be Mine
- Yesterdays
- So Fine
- Civil War
L’apertura la lasceremmo a Right Next Door to Hell sia perché ha lo stesso tiro (ma non la stessa qualità) di una Welcome To The Jungle (con cui si aprivano le danze del disco d’esordio),sia per la storia assurda che l’ha generata: la porta dell’inferno a cui si riferiva metaforicamente Axl era qualcosa di molto più terra terra di quella varcata da Dante. Si trattava, infatti, di quella della vicina di casa che nutriva una vera e propria ossessione nei suoi confronti, ragion per cui non faceva altro che ascoltare la musica dei Guns a tutto volume dalla mattina alla sera. A quanto pare persino Axl a un certo punto non ne poteva più di ascoltare sé stesso e la cosa finì in tribunale oltre che in una canzone d’apertura perfetta.
A seguire ci sarebbero sicuramente le due cover dei brani di Dylan e McCartney come fiere dichiarazioni d’intenti, per passare subito dopo alla vera “ciccia autografa”, ovvero la famosa trilogia mancata delle ballate d’amore e morte, Dont’ Cry, November Rain ed Estranged . Se guardando i tre video non siete mai riusciti a capire bene la storia che ci sta dietro il motivo è semplicissimo: è troppo confusa (così come tutto quello che riguarda la musica della band). La maxi-storia contenuta in questa videografia, infatti, mischia in realtà diverse storie in cui si intrecciano le vicende personali di Axl con la sua prima ex moglie Erin Everly e quelle con la sua nuova fidanzata Stephanie Seymour (protagonista dei primi due video e grande assente nel terzo), il tutto innestato su una base narrativa ispirata a un racconto dello scrittore e amico Del James, intitolato Without You, in cui una rockstar cerca di scrivere il brano definitivo sull’amore perduto. SPOILER: alla fine ci riesce, ma lei si uccide mentre lo ascolta e lui muore tra le fiamme mentre lo esegue.
Insomma una sorta di Shakespeare in salsa pulp heavy metal
- Don’t Cry
- November Rain
- Estranged
Nella seconda parte del disco inseriremmo per forza di cose il singolo e simbolo del “rock terminator”You Could Be Mine, quello sul rifiuto della nostalgia, Yesterdays (got nothin for me) e l’omaggio al loser del punk per eccellenza Johnny Thunders – So Fine – perché magari non puoi mettere le braccia attorno al collo di un ricordo, ma una canzone forse sì (cfr.You Can’t Put Your Arms Around a Memory).
E infine a concludere il tutto ci sarebbe il loro unico tentativo di scrivere un brano di rilevanza sociale, fallito naturalmente, miseramente e splendidamente con Civil War – che non a caso si apre con una citazione quasi simbolica:
What we’ve got here, is a failure to communicate.
E forse davvero miglior sintesi di questa doppia illusione musicale non c’è.