Chi è il più grande chitarrista della storia del rock? La domanda è stata posta migliaia di volte e ogni volta trova la stessa risposta: non si sa. Eppure, se provassimo a chiedere agli stessi chitarristi, un nome verrebbe citato di sicuro da tutti. Il nome di Robert Johnson.
Il Mozart del Mississippi, così si è spinto qualcuno a chiamarlo; prototipo del musicista dalla vita sulla strada e maledetta, artista avanti di decenni rispetto alla sua epoca. Robert Johnson non fu solo un chitarrista dalla tecnica irraggiungibile, ma anche un cantante, compositore e paroliere eccezionale.
Robert Johnson fu – soprattutto – il primo a inaugurare il Club dei 27, ovvero dei musicisti morti prematuramente a 27 anni. Jimi Hendrix, Janis Joplin, Kurt Cobain, per citare alcuni compagni di questa macabra leggenda.
La nascita di Robert Johnson non porta con sé in nessuno modo il seme della futura grandezza; di certo porta quello della dannazione.
Robert nasce – forse – l’8 maggio del 1911 ad Hazlehurst. La madre, Julia Major, è ancora sposata con Charles Dodds, da cui ha avuto già dieci figli; l’uomo, però, l’ha già abbandonata per mettersi con un’altra donna. Robert è figlio infatti di Noah Johnson, lavoratore in una piantagione del Mississippi.
In un tripudio di fratelli, il piccolo Robert Johnson passa i primi anni a Memphis col padre e i figli avuti dalla nuova relazione; è Charles Melvin Leroy, uno dei tanti fratelli, a insegnargli i primi rudimenti alla chitarra e all’armonica. Quando la madre si risposa, Robert torna a vivere nel Delta, mettendo in luce il suo carattere ribelle. Né il lavoro in piantagione, né la scuola fanno per lui.
“Johnson non aveva nessun tipo di istruzione, anche se sapeva scrivere il suo nome e lo stretto necessario con una grafia ordinata” scrisse Mack MacCormick in una sua biografia. La vera passione di Robert Johnson è la musica, oltre a quella per donne e guai. Son House, grandissimo musicista di Delta Blues, interrogato al riguardo, ricorda così il giovane chitarrista:
Tutti quanti suonavamo ai balli del sabato sera e questo ragazzino non se ne perdeva uno. Sì, allora Robert Johnson era proprio un ragazzo. Suonava l’armonica e anche piuttosto bene. Ma la sua vera passione era la chitarra. Si sedeva per terra di fronte a me e Willie Brown e osservava prima uno e poi l’altro, alternativamente. Quando ci fermavamo per riposarci, lasciavamo le chitarre in un angolo e ci sedevamo al fresco. Robert guardava da che parte andavamo e ne prendeva una. Peggio di lui credo non ci fosse nessuno! La gente impazziva e veniva a dirci: ‘Perché non togliete di mano la chitarra a quel ragazzo!’ Allora io tornavo indietro e lo rimproveravo: ‘Non farlo Robert, non sei proprio capace! Perché non suoni un po’ l’armonica, invece? Ma lui non voleva e non gli interessava neppure quello che dicevo. Lo avrebbe fatto comunque.”
(Son House)
E sì, perché all’inizio Robert Johnson, con la chitarra, è una vera frana
Ad appena diciotto anni, il chitarrista si sposa con la giovane Virginia Travis, di quindici anni. Passa un solo anno e la donna muore di parto, portando con sé anche la nascitura. Nasce forse qui la figura tormentata di Robert Johnson; il giovane, disperato, inizia a girovagare per il Delta, dandosi all’alcol e ad avventure occasionali. Ma il fatto che matura la leggenda del suo incontro col diavolo, per cui diviene celebre, ha davvero contorni inspiegabili.
Per un anno Johnson girovaga, facendo perdere le sue tracce. Quando riappare, il chitarrista goffo e dalle scarse capacità, ha lasciato spazio a un musicista dalla tecnica innovativa e formidabile. La leggenda, alimentata dallo stesso Robert, che forse ha un talento innato per il marketing, è quella del patto col diavolo. Rispettando la tipica iconografia dei luoghi, si dice che Johnson si sia recato alla mezzanotte ad un incrocio stradale, il cosiddetto crocicchio. A quel punto un uomo vestito di nero, il demonio stesso, sarebbe apparso proponendogli un patto.
In cambio della sua anima, Robert Johnson sarebbe diventato il miglior chitarrista del Delta. La verità, secondo alcuni, non è poi così distante; molti raccontano che nell’anno misterioso, Robert si accompagnasse spesso a Ike Zimmerman, oscuro bluesman che gli fa da maestro. La figura di Zimmerman si perde nelle nebbie del tempo, nessuno ne sa nulla di certo, tranne un paio di particolari.
Ike era solito suonare nei cimiteri, tra lapidi e tombe, e alcuni ritengono che fosse un vero e proprio emissario del demonio.
Quale che sia la verità, Robert Johnson – e su questo le versioni concordano – ricompare sfoggiando una tecnica irraggiungibile.
Quando lo ascoltai per la prima volta – racconta il grande Robert Cray – nel 1971, pensai che venisse da un altro pianeta. Puoi studiare le sue canzoni per tutto il tempo che vuoi, ma non c’è modo di suonare e cantare con quel tipo di emozione. Le persone così brave non le sopporto, ma è una cosa con cui devi convivere.”
Eric Clapton lo considera una sorta di spirito guida e fin dai tempi di John Mayall e dei Cream lo omaggia con varie cover. Con Baker e Bruce registra una versione al fulmicotone di Crossroad, il blues dove Johnson narra del suo patto col diavolo. Negli anni della maturità, Clapton realizza addirittura un disco di sole cover acustiche, in cui cerca di afferrare in pieno lo spirito di Robert.
Per me Robert Johnson è il più importante musicista blues mai vissuto. Non ho mai trovato nulla di più profondamente intenso. La sua musica rimane il pianto più straziante che penso si possa riscontrare nella voce umana.” Sono parole di Slowhand.
Un’altra simpatica leggenda narra che Keith Richards conosca la musica di Johnson quando gliela fa sentire Brian Jones: “Che diavolo, dove l’hai preso? Questa è roba superiore!” In seguito Richards chiederà all’amico chi fosse a suonare la seconda chitarra, senza rendersi conto che era Robert Johnson a suonare da solo.
Eppure, di Robert Johnson ci resta un ben misero lascito, appena ventinove canzoni. Tutti i pezzi vengono registrati in appena cinque sessioni, tra il novembre del 1936 e giugno del 1937. Le registrazioni sono organizzate da Ernie Oertle, un talent scout a cui Robert è stato presentato da un negoziante di dischi di Dallas, tale H.C. Speirs. Le session vengono realizzate in una scarna stanza d’albergo, senza apparecchiature adeguate.
Lo stile chitarristico di Johnson è vario, gettando un ponte tra gli stili blues in voga all’epoca; ci sono tracce del tipico downhome del Delta, ma anche degli shuffle texani e cenni di country e jazz. Il cantato è ancora più peculiare; a differenza degli altri bluesman, quasi tutti dotati di voci roche e profonde, Johnson ricorre spesso a un falsetto molto acuto, suggestivo e a tratti straziante.
Secondo alcune ricostruzioni moderne, però, i 78 giri potrebbero essere stati velocizzati in fase di post-produzione di almeno il 20%, ciò vorrebbe dire che la voce di Johnson fosse in realtà molto meno acuta.
I testi sono a loro volta innovativi; sebbene alcuni ricalchino la tradizione blues, tra donne, alcol e prostituzione, molti hanno temi autobiografici, violenti e macabri. Crossroad Blues e Me and the Devil raccontano del suo patto col diavolo; Hellhound on my Trail è quasi profetica, coi mastini dell’inferno che gli danno la caccia.
La figura di Johnson assume sempre più i contorni del mito, mentre ancora è vivo e gira per locali suonando con Sonny Boy Williamson II e David Honeyboy Edwards. Un destino macabro quanto i suoi blues è però in agguato.
La sera del 13 agosto del 1936 Johnson si esibisce coi suoi compagni d’avventura al Three Forks, quindici miglia da Greenwood. Lui e la moglie del padrone del Three Forks se la intendono, lo sanno tutti. Lo sa anche il marito della donna, che tuttavia – con una certa sportività – lascia fare e continua a ingaggiarlo. Il nome di Robert Johnson, bluesman indiavolato, attira un sacco di clienti.
Quella sera, però, secondo le testimonianze degli altri musicisti, Johnson esagera. Complici alcol ed eccitazione del momento, lui e la sua amante si abbandonano a effusioni inequivocabili davanti a tutti, compreso il gestore del locale. Quando gli offrono da bere da una bottiglia di whisky già aperta, Sonny glielo impedisce gettando a terra il liquore. Forse sa che qualcuno lo vuole morto, ma Robert s’infuria e beve avidamente da un’altra bottiglia, anch’essa aperta.
Poco dopo Johnson si sente male, lo portano via e – dopo giorni di agonia – muore. È il 16 agosto del 1936, la leggenda di Robert Johnson può iniziare.
Le cause della morte non saranno mai chiarite, nessun medico lo visita nonostante la lunga e terribile agonia; chi parla di avvelenamento – come nella versione più accreditata – chi di accoltellamento. Tutti ci vedono lo zampino del demonio, venuto a reclamare l’anima del chitarrista.
Quello che è certo è che l’anima di Johnson, diavolo o no, rivive ancora in centinaia di musicisti. Nelle cover appassionate di Eric Clapton come in Sweet Home Chicago dei Blues Brothers; nella slide di Ry Cooder come nei riff indiavolati di Keith Richards; nel blues ortodosso di Robert Cray o Billy Gibbons ma anche di tutto il rock’n’roll, tanto che Johnson è stato uno dei primi musicisti ad essere introdotto nella Hall of Fame del rock.
La sua chitarra ha tracciato la strada per legioni di musicisti, la sua penna è stata paragonata a quella di poeti come Keats e Shelley.
Quanto alla sua voce, è Robert Plant a tracciare un’acuta analisi
Il tormento e la desolazione di Johnson sono meravigliosi. Cantare con la sua intensità è la credenziale più importante che un uomo di spettacolo possa avere.”
L’ultimo mistero di Robert Johnson riguarda la sua sepoltura; anche qui le voci sono diverse, almeno in tre luoghi delle lapidi lo ricordano. Poco lontano da Greenwood c’è un grande obelisco, posto nel 1990 su una lapide preesistente, con incisi tutti i titoli dei blues di Robert Johnson. L’opera è stata voluta dalla Columbia Records e il luogo rimane quello più accreditato dove piangere il grande musicista del Delta.