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Inferno, il capolavoro prog dei Metamorfosi sulle orme di Dante

Inferno dei Metamorfosi

Nell’inverno del 1973, a febbraio, esce Inferno, secondo album dei Metamorfosi e uno dei massimi capolavori del rock progressivo italiano. L’album si rifà in chiave moderna alla Commedia di Dante Alighieri.

Il 2021 è l’anno di Dante e – tra le tante, forse troppe, iniziative – ci sembra giusto rievocare lo splendido Inferno dei Metamorfosi. Il disco è pensato inizialmente come il primo di una trilogia che dovrebbe ripercorrere l’opera dantesca; il fallimento della Vedette e una serie di peripezie faranno sì che il progetto venga completato quattro decenni dopo.

Ma chi sono i Metamorfosi? Il gruppo nasce quando alla formazione romana de I Frammenti si aggiunge la voce del siciliano Davide Jimmy Spitaleri. Il primo nucleo del complesso vede Enrico Olivieri alla voce e alle tastiere, Roberto Turbitosi al basso e alla voce; Mario Natali siede dietro la batteria e Luciano Tamburro suona la chitarra.

I Frammenti si sono fatti una discreta fama locale nel circuito beat; i quattro prendono parte anche all’estemporaneo fenomeno delle messe beat, ottenendo in cambio la possibilità di provare in locali parrocchiali. L’ingresso di Spitaleri, leader naturale dotato di una delle voci più potenti ed espressive del prog, unita a una presenza scenica vagamente cristica, favorisce la maturazione della band.

A un primo, secco rifiuto della Fonit segue l’accordo con la Vedette. La casa discografica, oggi ormai dimenticata, all’epoca importa in Italia i migliori gruppi della Elektra, tra cui Doors e Stooges. Il primo frutto, in verità acerbo, è …E fu il Sesto Giorno del 1972. Il lavoro risenta ancora di forti influenze religiose per il testo, e di suggestioni tardo beat per le musiche.

Si tratta di un concept a tema religioso, con un pacifismo naif piuttosto ingenuo. Nel complesso il lavoro è trascurabile, considerando che nel ’72 il prog italiano poteva vantare già alcuni capolavori ben più maturi. Tuttavia non tutto è da buttare, soprattutto la voce di Spitaleri, la grande coesione della sezione ritmica e l’ottimo lavoro alle tastiere di Olivieri.

Inaspettatamente, dopo appena sei mesi di composizione e tre giorni di registrazioni, i Metamorfosi tirano fuori dal cilindro il capolavoro.

E – attenzione – non si tratta solo del loro capolavoro, ma di uno dei massimi esiti degli anni ’70. Dopo l’esordio Mario Natali e Luciano Tamburro abbandonano. Il primo viene sostituito da Gianluca Herygers, fenomenale quanto inquieto batterista congolese.

Tamburro non viene invece rimpiazzato, portando i Metamorfosi nella scia di complessi come Emerson, Lake & Palmer e Quatermass, artefici di un prog quasi senza chitarre. La sei corde viene occasionalmente imbracciata, in versione acustica, dal bassista Turbitosi, mentre le parti soliste sono appannaggio delle multiformi tastiere di Olivieri.

Il progetto di Inferno è piuttosto composito, se non eccessivamente complesso. Portare in ambito prog il mastodontico capolavoro dantesco non è impresa di tutti i giorni, specie se si è dei semi esordienti. Le difficoltà vengono però superate con l’incoscienza e l’esuberanza tipica dei giovani e soprattutto di quegli anni sperimentali e di fervida creatività.

I gironi dell’inferno di Dante vengono rielaborati e adattati a temi che in alcuni casi risultano ancora oggi attuali; in altri molto meno, ma non per gli anni ’70. Ed ecco così finire nel mirino dei Metamorfosi moderni peccatori: spacciatori, razzisti, politicanti e sfruttatori, nessuno manca nelle bolge anni ’70 della band. Al di là di qualche ingenuità, i testi sono quasi strabilianti, considerando l’esiguo tempo a disposizione e la giovanissima età dei musicisti.

Dal lato musicale, Inferno sorprende anche il più scettico critico.
Olivieri, pur con un armamentario di tastiere non aggiornatissimo, riesce a occupare tutti gli spazi, senza risultare eccessivo; il musicista ha a disposizione un organo a canne, un VCS3 e un sintetizzatore prototipo messo a punto da Mario Maggi.

Oltre ovviamente a un pianoforte. Le composizioni riescono a essere assolutamente pertinenti al progressive, ma senza risultare troppo debitrici alle grandi band d’oltremanica. Anzi, il suono ben rappresenta un certo prog mediterraneo, con sulfuree venature dark e gotiche che danno un fascino spettrale all’intera opera.

L’album è diviso in veri e propri movimenti, sedici nel vinile originale, dodici nelle ristampe su cd. A conferma del grande spessore del progetto, la splendida copertina, che sfrutta un inquietante dipinto del pittore Adelchi. Il lavoro giaceva abbandonato nei magazzini della Vedette, creato per un altro progetto e rimasto poi inutilizzato.

Ma è giunto il momento di mettere sul piatto Inferno e sentire come suona, a quasi cinquant’anni dall’uscita originale.

Un sinistro colpo di gong apre l’Introduzione, che prosegue con un organo a canne che rende subito l’atmosfera solenne. La voce maestosa di Spitaleri attacca con una bella melodia che lascia subito spazio a una bella parte di tastiere che si alternano al piano. Il groove del basso di Turbitosi e della batteria di Herygers è piacevolmente dissonante rispetto alla dolcezza della melodia.

Questa ouverture mette subito in mostra la capacità dei Metamorfosi di cambiare ritmo, con fughe quasi jazzistiche e passaggi al limite del classico. Il fantasma di Keith Emerson, sia periodo Nice che ELP è ben presente.

Dopo quattro minuti un nuovo cambio di ritmo ci introduce nella Selva Oscura, con una serie di effetti elettronici di Olivieri. Qualche passaggio ricorda un po’ anche certe cavalcate dei Deep Purple, ma l’ispirazione rimane sempre dentro i canoni del prog.

Un netto cambio di atmosfere, che si fanno più cupe, ci porta alla Porta dell’Inferno; un breve incedere marziale coi celebri versi Lasciate ogni speranze o voi che entrate, fa da introduzione per l’ingresso in scena di Caronte. Siamo in uno dei momenti più epici del disco e forse dell’intero prog italiano.

Caronte, demonio occhi di fuoco nel buio, con queste parole la voce sempre più roboante di Spitaleri tratteggia un breve ritratto del traghettatore di anime mitologico. A tratti il buon Jimmy pare quasi prendersi un po’ troppo sul serio, e questo rimane forse il limite più grande di un disco comunque quasi perfetto.

Un tema quasi hard rock introduce il primo girone, quello riservato allo Spacciatore di Droga; subito, però, la melodia si fa lenta e dolce quando le parole passano a narrare il dramma dei drogati, visti come vittime dell’avidità dei pusher.

Un suono di tuoni e sommovimenti annuncia la parte intitolata Terremoto. Olivieri dà la stura al suo demone jazz, con un indiavolato pianoforte jazz che duetta alla perfezione con la sezione ritmica. Arriva ancora il gong e una dolcissima melodia d’organo con qualche reminiscenza beat ci porta tra i Lussuriosi. Il flauto traverso, suonato da Spitaleri, aggiunge suggestione. Uno dei momenti migliori dell’intero lavoro.

Arrivano però anche delle dolenti note, sempre per dirla con Dante, ma solo nelle liriche.

I versi Perversi e invertiti/Amanti proibiti suonano inaccettabili anche contestualizzando il disco nel suo tempo, che era comunque quello della liberazione sessuale e del progressismo. Un po’ uno scivolone che forse contribuisce ad alienare qualche simpatia a un lavoro eccezionale ma che ha il difetto di essere leggermente supponente e conservatore.

Il girone successivo è quello degli Avari, ancora un riuscito connubio di voce e sintetizzatori; una sorta di ballata prog che ricorda un po’ Impressioni di Settembre della PFM. All’inizio posato segue una breve cavalcata strumentale che lascia subito spazio al girone dei Violenti.

Tra momenti riflessivi e indemoniate cavalcate prog si va avanti con Malebolge, Sfruttatori e Razzisti. I Metamorfosi si dimostrano un complesso incredibilmente maturo e coeso a livello strumentale, alternando con scioltezza suggestioni diverse con cambi di ritmo che si susseguono in modo quasi straniante. A menare le danze sono sempre le tastiere di Olivieri, indiscusse protagoniste con la voce impostata di Spitaleri.

Da segnalare ancora la piena riuscita del bellissimo movimento intitolato Razzismo, ideale fusione di versi quasi hard e fughe melodiche dei synth.

Poche volte il prog italiano – spesso debole nelle voci – ha raggiunto queste vette. Un intermezzo con versioni distorte dell’inno americano e di quello sovietico porta a gli ultimi movimenti.

Nel girone più basso, dove troviamo anche Lucifero, i Metamorfosi collocano i Politicanti; a testimonianza dell’idea non proprio edificante che il complesso nutre verso le classi governanti, di qualsiasi colore siano. La conclusione di questo viaggio agli Inferi, vorticoso e onirico, è ancora affidata ai sintetizzatori, con un breve explicit.

Inferno è un disco epocale del prog italiano ma, come spesso accade all’epoca, è anche la pietra tombale sulle ambizioni della band. Il fallimento della Vedette lascia incompiuti i progetti dei romani, nonostante una buona fama live e discrete vendite, circa 15mila copie.
Paradiso, il previsto seguito, è a quel punto quasi ultimato ma rimane nei cassetti fino al 2004, quando vede la luce.

Nel frattempo Jimmy Spitaleri viaggia per l’America e incide un paio di lavori solisti, uno a nome Thor; tanto per rimanere in ambito teologico. Alla fine degli anni Novanta, grazie anche a un certo movimento di rivalutazione del prog, i Metamorfosi rinascono, anche se lievemente rimaneggiati. Paradiso è un buon lavoro, ma ovviamente non regge il confronto coi dischi originali; i tempi sono cambiati e il rock progressivo è rimasto legato in modo indissolubile a cultura e atmosfere degli anni ’70. I nostalgici preferiscono ascoltare le vecchie canzoni, i neofiti non hanno gli strumenti adatti per apprezzare i nuovi prodotti, in linea generale.

Nel 2016 Purgatorio chiude il cerchio, con l’ultimo capitolo della trilogia dantesca; oggi Jimmy Spitaleri continua, con la sua voce possente e la lunga chioma, a portare in giro il verbo dei Metamorfosi e del prog, tra vecchie e nuove canzoni.

— Onda Musicale

Tags: Deep Purple, Prog Rock, Keith Emerson, ELP
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