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Presence, il ritorno alle radici dei Led Zeppelin

I Led Zeppelin e Presence

L’ultimo giorno di marzo del 1976 fa la sua comparsa nei negozi di dischi Presence, il settimo album dei Led Zeppelin. Il successo è immediato e tutto sembra confermare lo status della band come migliore del rock.

Invece, a guardare dietro l’anonima copertina di Presence, si nasconde una storia di grande travaglio, il grido di sopravvivenza di un grande complesso che ha appena rischiato la sua fine. Riavvolgiamo il nastro della storia.

Fin dall’esordio all’inizio del 1969, i Led Zeppelin si sono imposti come il più grande fenomeno del rock dopo i Beatles; e proprio dalla band di Liverpool Plant e soci raccolgono il testimone di complesso bestseller dell’epoca. I primi quattro album, intitolati semplicemente seguendo la numerazione romana, sono un trionfo. I Led Zeppelin spostano sempre più su l’asticella della qualità.

Il loro sound, pur non essendo particolarmente di rottura, codifica il passaggio tra il blues duro e psichedelico dei Cream all’hard rock degli anni Settanta. Fino a IV la progressione è inarrestabile. I Led Zeppelin sono in cima al mondo, si muovono con un enorme jet privato e fanno numeri milionari ovunque vadano. A quel punto, però, è chiaro che come ogni parabola non ci può essere solo la fase di salita.

Physycal Graffiti – il quinto album e il primo per la loro Swan Song – è il progetto più mastodontico. Un doppio album che suona benissimo e riscuote grande successo, ma che comincia a mostrare qualche crepa; questo non tanto nella musica, eccezionale, quanto in qualche malumore di contorno e nei guai di salute di Robert Plant.

La vita on the road condotta per 5-6 anni, senza soste, ha prodotto i suoi effetti. Sullo stato d’animo, innanzitutto; Bonzo Bonham affoga la nostalgia di casa e famiglia nell’alcol, di cui diventa schiavo, mentre Jones minaccia più volte di lasciare, stanco di girare il mondo senza vederlo. In tutto ciò, Robert Plant deve essere operato alle corde vocali.

Robert è un cantante istintivo, la sua voce roca e viscerale non ha mai conosciuto le tecniche delle scuole di musica e i risultati si fanno presto sentire. Lo sforzo a cui il frontman ha sempre sottoposto le sue corde vocali è tremendo; a presentare il conto sono sia la mancanza di tecnica che lo stile esplosivo, uniti agli sfiancanti tour e agli eccessi.

Il ritorno è abbastanza veloce, ma la sua voce non sarà più la stessa, pur rimanendo lo molto valida. Ma i guai per Robert sono appena iniziati.

Il 4 agosto del 1975 i Led Zeppelin stanno per iniziare un tour mondiale per cui prevedono di girare tutto il mondo; i motivi sono le tante richieste, ma anche le tasse: per sfuggire al rigido regime britannico, i quattro non possono trascorrere più di trenta giorni l’anno in patria. Alla vigilia della partenza, Robert e Jimmy si concedono una lunga vacanza con le famiglie.

Durante un viaggio in auto a Rodi, in Grecia, l’auto di Plant ha un terribile incidente. Sulla macchina viaggiano col vocalist la moglie, i figli e la figlia di Jimmy Page.

Robert rimedia varie fratture, tra cui quella del bacino. Va peggio a Maureen, la moglie, che rimane tra la vita e la morte prima di riprendersi; i figli Karac e Carmen, assieme a Scarlet, figlia di Page, rimangono quasi illesi. Il tour mondiale è annullato e Robert è costretto per mesi sulla sedia a rotelle.

“Mi rendo conto che quella prospettiva, o fattore di spensieratezza che avevo, è sparita all’istante con l’incidente d’auto del 1975. Quel genere di attitudine sgangherata della serie “posso conquistare il mondo” era completamente andata.”

Il tour previsto è annullato, con perdite milionarie; il recupero è lento e doloroso, reso più arduo anche dall’esilio fuori dalla Gran Bretagna. Plant – come molte star dell’epoca – è una sorta di esule fiscale, per eludere il rigido regime delle tasse del suo paese, e trascorre la riabilitazione tra l’isola del Jersey e Malibu.

Ansioso di tornare a incidere – rispettando la regola non scritta di uscire con un album all’anno – Jimmy Page raggiunge il compagno in California. Plant ha scritto una serie di testi che riflettono il suo difficile periodo, mentre Page ha in mente un ritorno alla semplicità di riff e arrangiamenti degli esordi. Messo insieme materiale sufficiente, i due vengono raggiunti da Jones e Bonzo e iniziano a provare negli studi SIR di Hollywood.

Le registrazioni vere e proprie avvengono invece a Monaco di Baviera, ai Musicland Studios. Il posto è molto quotato, tanto che i Led Zeppelin devono affrettarsi perché gli studi sono già stati prenotati dai Rolling Stones per il loro coevo Black and Blue.

Presence – come non capitava dagli esordi – viene registrato in pochi giorni e missato e terminato in appena diciotto. Gli studi, ricavati nel seminterrato di un vecchio hotel, creano non pochi problemi a Plant, piuttosto fragile in quel periodo. Robert canta e suona l’armonica mentre è ancora costretto sulla sedia a rotelle; non solo, l’ambiente gli crea attacchi di claustrofobia, acuiti dalla mancanza della propria famiglia.

Jimmy Page, dal canto suo, si sobbarca tutto il lavoro di post-produzione, in un periodo in cui è sempre più schiavo dell’eroina. Con Keith Harwood lavora alle tracce fino a 20 ore al giorno, arrivando a dormire dentro i Musicland Studios. Alla fine, la chitarra di Page sarà la grande protagonista di Presence, con diverse tracce sovraincise e l’assenza totale delle tastiere.

La copertina, il cui parto fa slittare la pubblicazione di qualche settimana, è curata dallo studio Hipgnosis. Secondo Storm Thorgerson, la band è talmente celebre da non aver nessun bisogno di apparire; trovata geniale, se non fosse che i Led Zeppelin l’avevano già adottata per IV. La cover presenta la foto di una famigliola stile anni ’50, radunata attorno a un tavolo mentre osserva un misterioso oggetto. Lo sfondo ritrae l’arena di Earl’s Court in occasione del salone nautico.

L’oggetto, presente anche all’interno in altre foto, è una sorta di monolito nero, ispirato a quello di 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick. Denominato semplicemente “The Object”, il manufatto viene prodotto in una serie limitata che va velocemente a ruba.

Il titolo Presence evoca la sensazione di forza quasi sovrannaturale che la band sente al momento in cui si ritrova insieme per registrare. Come detto, il sound del disco si discosta molto da quello che nel tempo si era andato sempre più strutturando; i fan, abituati ad alternare rock duro con ballate folk e pezzi al limite del prog, si ritrova un disco schietto e compatto ancora più che agli esordi. La chitarra elettrica finisce per monopolizzare tutto il lavoro.

Presence si apre con Achilles Last Stand, assurto a classico della band e lungo oltre dieci minuti. Jimmy Page – che incide una mezza dozzina di sovraincisioni – ha più volte indicato il pezzo come il suo preferito dei Led Zeppelin. L’assolo di chitarra, inoltre, è per il chitarrista altrettanto valido di quello di Stairway to Heaven.

Robert Plant snocciola un testo denso di riferimenti personali, ai suoi viaggi e alla mitologia. La citazione di Achille, col suo famoso tallone, allude all’incidente e alla sua impossibilità di camminare per oltre un anno. Altra fonte di ispirazione è Albion di William Blake, mentre un’altra citazione unisce le montagne dell’Atlante e l’omonima figura mitologica.

A livello musicale il pezzo mescola un hard rock a tratti quasi heavy metal con le amate – da Plant – suggestioni orientali. La musica marocchina, in particolare, pare ispirare a tratti l’ispirata chitarra di Jimmy. L’andamento rutilante della sezione ritmica ricorda Immigrant Song, con una resa ancora più epica. John Paul Jones utilizza per l’occasione un basso Alembic a 8 corde, mentre Bonzo si scatena come al solito col suo drumming di incredibile potenza.

La chitarra di Page la fa comunque da padrona, tra intarsi orientaleggianti, slide e assoli al fulmicotone. Plant, meno esplosivo del solito – comprensibilmente, dati i vari acciacchi – offre comunque una prestazione perfetta.

Dopo un attacco così è difficile mantenere la tensione allo stesso livello. Fatalmente la successiva For Your Life, pur proponendo un hard rock sincopato ed efficace, non ci riesce. Il lavoro di Page alla chitarra è comunque encomiabile, ma il brano rimane tra i minori in una discografia come quella degli Zeppelin. Lo stesso vale per Royal Orleans, sghembo e breve pezzo funky che non si fa ricordare in modo incisivo.

All’epoca sarebbe già arrivato il momento di voltare il vinile, inaugurando la seconda facciata. Una chitarra trattata con vari effetti, dal suono quasi spaziale, introduce un portentoso riff che viene doppiato dalla voce di Plant. C’è ben poco di futuristico, invece, visto che la musica è quella di Nobody’s Fault But Mine di Blind Willie Johnson, anno di grazia 1928.

Riprendendo una loro discutibile abitudine, Page e Plant dimenticano di attribuire i giusti crediti al chitarrista non vedente degli anni Venti, già omaggiato da Nina Simone e – tra gli altri – John Renbourn. E proprio alla versione acustica di Renbourn, di qualche anno prima, pare appoggiarsi la versione tutta elettrica dei Led Zeppelin.

Abitudini discutibili a parte, il brano è eccezionale, i Led Zeppelin sanno trattare la materia blues come nessun altro; riescono a dare un mood inconfondibile, totalmente personale, pur pagando pegno alle radici del genere. Il testo viene adattato e risulta molto meno sacro dell’originale e molto profano. Plant canta da par suo e sfoggia una prestazione onorevole all’armonica.

Jimmy Page si lascia andare alle sue pulsioni blues e confeziona un assolo perfetto e misurato. La sezione ritmica – manco a dirlo – pesta come la pressa di un’acciaieria; siamo davanti a uno dei climax del disco e di tutta la seconda parte della carriera dei Led Zeppelin.

Si prosegue con Candy Store Rock; nella discografia del gruppo sono spesso presenti questi episodi rock’n’roll, tra il divertito e il serio, con Robert Plant che gioca a fare l’Elvis e Page che ripesca le sue esperienze da turnista degli esordi. Il risultato è un simpatico riempitivo, un pezzo di raccordo che non fa nulla per farsi ricordare vicino ai capolavori.

Hots On For Nowhere presenta di nuovo un andamento quasi funky e molto sincopato. Il pezzo, anche in questo caso, non è tra i più riusciti e offre anche un curioso intermezzo chitarristico quasi country. Siamo all’ultimo brano e la tensione blues torna a salire alle stelle.

Tea For One inizia in modo ingannevole, una ventina di secondi di chitarra elettrica che snocciola fraseggi rock, per poi trasformarsi all’improvviso in un rovente slow blues. Oltre nove minuti di incredibile feeling, con i Led Zeppelin che tornano la band degli esordi, quella capace di modellare a proprio piacimento gli stilemi del blues e del British Blues.

La chitarra di Page piange, mostra i muscoli, cambia suono e alterna passaggi quasi melodici a sfrenate scale blues. I fantasmi dei grandi bluesman neri ci sono tutti, come a omaggiare la band stessa con la loro presenza; da Otis Rush a B.B. King, passando per Buddy Guy, Jimmy Page rende giustizia a ognuno ma sempre con uno stile inconfondibile.

Robert Plant canta con un sentimento impareggiabile. Se i problemi alle corde vocali hanno forse minato l’estensione e l’esplosività, le pesanti vicissitudini lo hanno reso ancor più credibile nel cantare il blues, genere sofferto per eccellenza. Inutile sottolineare le prestazioni magistrali di Jones e Bonham. Tea For One però un peccato originale ce l’ha, e sta nella somiglianza al limite dell’auto plagio col capolavoro Since I’ve Been Loving You.

Ma è un peccato che nel blues, fatto di standard, si perdona con piacere.

Presence finisce così, con nove minuti di intensità quasi dolorosi.
Il disco vende tantissimo, tanto da ottenere il Disco d’Oro il giorno stesso dell’uscita. Le condizioni di Plant non permettono di portare il lavoro in tour, tanto che solo Achilles Last Stand e Nobody’s Fault But Mine entreranno nel repertorio live.

La critica è meno generosa; il lavoro – pur apprezzato – viene visto come frettoloso e un passo indietro rispetto alla complessità dei lavori precedenti. Questo, però, era probabilmente tra gli obiettivi di Page, Plant e soci. Certo è che, se c’erano dubbi, l’ultimo giorno di marzo del 1976 fa capire che i Led Zeppelin sono ancora i migliori sulla piazza del rock.

Pare il primo tassello di una rinascita, invece nuove tragedie – ancora più gravi – si abbatteranno sulla band inglese.

— Onda Musicale

Tags: The Beatles, Led Zeppelin, Robert Plant, John Bonham, B.B. King, Buddy Guy
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