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Duran Duran: con “Rio” iniziano i rutilanti anni Ottanta

I Duran Duran nel 1982.

Sui Duran Duran è stato scritto pressoché di tutto; amati e odiati in egual misura, per anni osannati dal pubblico e sbeffeggiati da certa critica. Rio, però, è l’album che mette d’accordo tutti ancora oggi. L’album che ha codificato il suono degli anni ’80.

I Duran Duran nascono nel 1978 a Birmingham, mentre in tutta la Gran Bretagna impazza la breve rivoluzione del punk. Birmingham è forse la città più grigia d’Inghilterra, famosa per le acciaierie. In un posto del genere qualcosa devi pure inventarti per tirare avanti.

E se all’inizio degli anni Settanta i Black Sabbath si erano inventati l’heavy metal, i Duran Duran riusciranno a riportare i colori all’inizio degli anni Ottanta; anni in cui, inizialmente, i toni cupi del punk e della New Wave la facevano da padroni.

I primi membri attorno a cui si forma il complesso sono John Taylor, che all’epoca imbraccia la chitarra, Nick Rhodes, tastierista e Stephen Duffy, che si occupa del basso e della voce. I tre, più che dal punk, sono affascinati dal Prog Glam dei Roxy Music, dal decadentismo di David Bowie e Ultravox, dagli esperimenti elettronici di Kraftwerk e Human League.

Al momento di trovare un nome per il gruppo, il televisore nella stanza dove i tre si trovano trasmette il vecchio film Barbarella; curiosa coincidenza o leggenda metropolitana, chi può dirlo? Fatto sta che il personaggio del cattivo, Durand Durand, privato della lettera finale, diventa uno dei moniker più famosi della storia.

Gli inizi sono stentati, tra esibizioni deludenti, canzoni abbozzate e vorticosi cambi di formazione. Nel frattempo la scena britannica continua a inventare nuove etichette per nuovi generi. Quello che pare cucito apposta per i Duran Duran – e per i loro futuri rivali Spandau Ballet – è il New Romantic.

Nel 1981 la formazione è finalmente stabile. A Taylor e Rhodes si aggiungono – curiosamente – altri due Taylor che non sono parenti; sono Andy, valente chitarrista, e Roger, batterista appassionato di prog. Ma l’acquisto più importante – su suggerimento di una barista del locale che frequentano – è quello del cantante: Simon John Charles Le Bon.

Simon Le Bon, ancora ben lontano dall’essere l’icona di un decennio, ha già tante idee ma paurosamente confuse. Studia drammaturgia, canta e compone versi; in nessuna di queste attività sembra però eccellere. Il suo grande dono è quello del carisma, che possiede in quantità industriale. Arriva la firma con la EMI e l’81 è l’anno del debutto, preceduto da un formidabile hype favorito dall’immagine glamour cucita addosso alla band.

Duran Duran viene registrato nel dicembre del 1980, con la morte di John Lennon che arriva come un macigno proprio durante le session. Il disco vende bene e impone la band come nuova star del New Romantic, pur mettendo in evidenza qualche limite nella voce di le Bon. I riferimenti sono ancora Roxy Music, Ultravox, il Bowie berlinese, ma anche la dance di Moroder e il funk degli Chic.

Simon Le Bon, però, si impone soprattutto come sex symbol dei nascenti anni Ottanta. Negli anni successivi esploderà una vera e propria mania, totalmente avulsa dalla musica e fatta di orde di adolescenti osannanti. Un culto che – come per i Beatles vent’anni prima – farà i suoi danni soprattutto dal vivo, con la band sovrastata dalle urla dei fan, incapace anche di sentire quello che suona.

Quando – il 10 maggio del 1982 – esce Rio quei tempi sono però ancora di là da venire; sono invece i tempi buoni per dare alle stampe un lavoro leggendario, quello che detterà suoni, mode e colori di un decennio.

La copertina porta la firma di Patrick Nagel, artista popolare negli Stati Uniti degli anni ’80 e pare un manifesto pubblicitario pop. Non solo, i Duran Duran sono tra i primi a sfruttare appieno il potenziale dei videoclip e dell’allora giovane MTV. Tutto è estetica, nella musica della band; i video, l’abbigliamento, le location da brochure dell’agenzia di viaggi, tutto è studiato per creare un’immagine patinata, il più possibile lontana dai cupi livori di periferia del punk.

Rio si apre con la traccia omonima, forse uno dei migliori pezzi in assoluto dei Duran Duran. Il brano sarà in realtà l’ultimo a uscire come singolo, accompagnato da un video girato ai Caraibi, a metà tra James Bond e l’estetica che verrà cannibalizzata da Miami Vice. Rio è un rock dalle cadenze quasi disco, perfetto nell’alternare l’efficace strofa a un ritornello aperto da cantare in coro negli stadi strapieni.

La voce di Le Bon, lungi dall’avere la qualità dei grandi che l’hanno preceduto, fa però trasparire il fascino e il carisma di Simon. Rhodes fa luccicare l’arpeggiatore costruendo un tappeto sonoro dove si srotola il basso rotondo e corposo di John Taylor. La chitarra è lucidata per le feste, patinata al punto da sembrare quasi un synth; quella che sarebbe stata una bestemmia qualche anno prima è ora il suono del nuovo rock.

Completa le atmosfere soffuse un assolo di sax, del session-man Andy Hamilton, che strizza l’occhio al fascino sinuoso di Brian Ferry. Un brano a suo modo perfetto, che rischia di far venire l’orticaria all’appassionato del rock del decennio precedente, ma che fa impazzire i fan della band di Birmingham.

Si prosegue con My Own Way, brano uscito come singolo già alla fine del 1981 in una versione più veloce, quasi disco. La ricetta è la stessa di Rio: suoni ultra patinati, voce da piacione di Simon Le Bon e chitarra e basso in salsa funky alla Nile Rodgers. Il tutto suona però leggermente meno accattivante della title track.

Lonely in your Nightmare suona leggermente più in linea coi dettami New Wave. Il risultato rimanda in parte ai coevi Japan e il basso di John Taylor rimane anche qui sempre in primo piano, prendendosi quasi lo spazio di un assolo centrale. Non manca qualche breve frase solista della chitarra di Andy Taylor, ma al brano manca un po’ di nerbo per entrare tra quelli memorabili.

Cosa che invece riesce alla roboante Hungry Like a Wolf; gli ingredienti sono gli stessi di Rio, per un risultato altrettanto efficace. Rhodes sfrutta l’arpeggiatore e i tre Taylor ci danno dentro col ritmo; un Le Bon particolarmente gigione conquista il suo giovane pubblico con un ritornello memorabile. Il video che accompagna il singolo, girato in Sri Lanka, propone una sorta di parodia di Indiana Jones, allora grande successo.

Si entra nella parte dell’album che propone i pezzi che non sono entrati nell’immaginario; quella in cui si possono trovare forse gli episodi più curiosi del disco. Hold Back the Rain, con una ritmica pulsante e fragorosa che ricorda quasi i Visage; Le Bon alterna i registri, da quello basso quasi da crooner a una sorta di spoken che precede il ritornello.

C’è poi New Religion, con un inizio quasi onirico e la chitarra di Andy Taylor finalmente in evidenza. Le atmosfere sembrano quasi omaggiare il Bowie berlinese, il basso rotola che è una bellezza e Le Bon interpreta da par suo. La tensione si scioglie però nel ritornello, questo sì in pieno stile Duran Duran. Un pezzo sicuramente ben riuscito, tra le gemme meno note di Rio.

Last Chance on the Stairway non fa nulla di particolare per rimanere impressa, se non introdurre un’accoppiata da brivido per il finale del disco. Save a Prayer, prima di tutto, una ballata cinematografica che entra subito nella patinata leggenda del complesso di Birmingham. L’arpeggio di Rhodes e il suo flauto synth, il basso melodico e in primo piano, la cristallina melodia cantata da Simon Le Bon: non manca nulla.

Il videoclip, ancora girato nell’allora Sri Lanka, stavolta centra il bersaglio con una versione intimista e intensa del playboy dal ciuffo cotonato, qui eccezionalmente pettinato all’indietro. La chitarra – assente per tutto il pezzo – si prende brevemente l’occhio di bue dopo il ritornello, con una parte melodica e patinata. Save a Prayer è il brano che forse più di tutti entra nel mito; quello da proporre al talent per conquistare i giudici nostalgici come attorno ai falò – ormai vietati – in spiaggia.

La chiusura tocca a The Chauffeur, brano insolito nella discografia del gruppo.
Per oltre un minuto la voce di Le Bon è sostenuta solo dal tappeto dei synth, declamando una melodia molto azzeccata. Il brano è molto più cupo e suggestivo della solita cifra della band; il testo deriva da una poesia che Simon ha scritto nel 1978, mentre si trova in Israele.

Forse è l’unico momento in cui il sound dei Duran Duran abbandona la luce accecante degli arrangiamenti tipici per loro; a riprova, anche il video è girato in bianco e nero, ispirandosi alle foto di Helmut Newton. The Chauffeur è un piccolo capolavoro dimenticato, che propone i Duran Duran sotto una luce insolita per i loro esordi.

Rio è insomma un album che riveste un’importanza epocale, non tanto per la musica, quanto perché fa da spartiacque tra due epoche. Il suono che ne esce, pur rifacendosi a mille ispirazioni, è quello che detta la direzione degli anni Ottanta, che si può quasi dire inizino nel 1982. La breve stagione del punk è al tramonto, resteranno New Wave e post punk, ma i colori del decennio edonista e patinato che inizia saranno quelli dei Duran Duran.

— Onda Musicale

Tags: Kraftwerk, The Beatles, Black Sabbath, David Bowie, Duran Duran
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