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Kula Shaker e “K”, il breve trionfo di una band icona degli anni ’90

La copertina di K dei Kula Shaker

Nel 1996 la scena britannica sembra essere nel pieno dell’esplosione Britpop. In realtà il movimento ha già raggiunto il culmine e band come Radiohead, Placebo e Kula Shaker sono pronte per qualcosa di nuovo.

Se le copertine delle riviste sono occupate dalla rivalità tra Blur e Oasis e dall’incredibile successo dei Pulp, alcune band hanno già intrapreso la parabola discendente. Vale per gli Stone Roses, o per gli Suede, veri iniziatori del Britpop. Tra le nuove leve i primi a ottenere un successo di vendite straordinario sono proprio i Kula Shaker.

Non sempre, tuttavia, il buongiorno si vede dal mattino.
Se è vero che i ragazzi capitanati dal biondo Crispian Mills porteranno avanti una carriera dignitosa e all’insegna dell’onestà intellettuale, è pur vero che meno quotati compagni di gavetta faranno molto di più. I Placebo, per esempio, ma soprattutto i Radiohead, in grado di portare forse le ultime intuizioni rock degne del passato.

Ma torniamo a quei giorni di metà anni Novanta, quando il Britpop mette per l’ultima volta una British Invasion al centro della scena rock.

I Kula Shaker, pur esordienti, non sono certo gli ultimi arrivati. Il primo nucleo di quella che sarà la band si forma alla fine degli anni Ottanta, quando al college di Richmond upon Thames si incontrano Crispian Mills e Alonza Bevan. Chitarra e basso dei Kula Shaker sono quindi già insieme.

Crispian è figlio dell’attrice Hayley Mills, piuttosto famosa come ragazzina prodigio di alcune produzioni Disney e da cui il chitarrista eredita il cognome. Mills è inoltre nipote di John Mills, pezzo da novanta nella storia del teatro inglese. Il giovane è un fervente seguace della scena rock e psichedelica di anni Sessanta e Settanta; inoltre, proprio in quegli anni, va maturando una sincera fascinazione per la cultura e il misticismo indiani.

Nascono cosi gli Objects Of Desire, una band che calca le scene live e la cui esperienza va avanti per circa un quinquennio. Nel 1993 Crispian – alla maniera degli hippie di 25 anni prima – zaino in spalla, parte per un viaggio alla scoperta dell’India. Il giovane torna arricchito spiritualmente e con un’idea in testa tanto chiara quanto bizzarra.

La nuova band – i Kays – unisce infatti un micidiale tiro funk-rock, passaggi psichedelici e onirici, sensibilità melodica pop e un esotismo mistico che ricorda l’approccio dei Beatles. Di George Harrison in particolare, vero nume tutelare di Crispian e compagni.

La formazione si assesta con Paul Winter-Hart alla batteria, Jay Darlington alle tastiere e Saul Dismont, cugino di Crispian, alla voce. Presto Dismont abbandona e Mills decide di prendere per sé anche le parti vocali; probabilmente è la scelta vincente, dato il timbro nasale e molto duttile, inconfondibile, del chitarrista.

La band suona per un paio d’anni, vincendo anche un importante contest per band emergenti – sì, esistevano anche allora – e decidendo di inserire sempre più rimandi indiani e, infine, di cambiare nome. Kula Shaker, moniker di grande impatto, è farina del sacco del vulcanico Mills e deriva da Kulacēkaraṉ, poeta e mistico hindu.

All’inizio del 1996 arriva il sospirato contratto con la Columbia, che punta su di loro nonostante il sound differisca profondamente da quello dell’ondata Britpop. Il primo singolo è Tattva, immortale anthem della band che però passa inizialmente quasi inosservato. Grateful When You’re Dead, pezzo bipolare con una prima parte quasi hard rock e una seconda psichedelica, omaggio a Jerry Garcia dei Grateful Dead, va meglio.

Passa poco tempo e Tattva viene ripubblicato come singolo: stavolta è il botto. Il brano arriva ai primi posti delle classifiche e fa da efficace traino al primo album dei Kula Shaker. Il disco esce il 16 settembre del 1996 con John Leckie in consolle, produttore di chiara fama, si intitola semplicemente K e porta la band al successo planetario.

La copertina è disegnata da Dave Gibbons e simboleggia perfettamente l’approccio del complesso. L’accattivante grafica, a metà tra gli anni Sessanta dei Beatles e il misticismo indiano, propone una schiera di personaggi storici; tutti sono accomunati dal nome che inizia per K. Tra gli altri, si riconoscono King Kong, J.F. Kennedy, dei cavalieri (knights in inglese), Kareem Abdul-Jabbar, Martin Luther King, Karl Marx e Boris Karloff.

L’attacco di Hey Dude è epico quanto naif; la chitarra col wah-wah la fa da padrona fino a quando entra la voce di Mills, a tratti indolente, a tratti grintosa e quasi furente. Quello che stupisce è la sicurezza del cantante, espressivo come un veterano ma in realtà al debutto. L’andamento è quello del rock più classico, ma l’energia non deve confondere: il testo di Hey Dude è profondo e quasi intimista, ponendo l’accenno sull’imperfezione della società capitalistica.

I was crossing the city one day, everybody was flashing by me/Like images of tombstones, images of tombstones/On a Friday night I’ve seen everybody looking for their little bit of honey to alleviate the pain, to alleviate the pain

Paragonare le persone per strada alle foto sulle lapidi è una trovata emblematica dell’efficacia di paroliere di Mills. L’assolo di chitarra, acido quanto basta, fa capire però che la band ci sa fare soprattutto con gli strumenti in mano. I live dei Kula Shaker, all’epoca, sono forse i più validi a livello strumentale, se confrontati a band dal sound grezzo e compatto ma non troppo tecnico, come Blur e Oasis.

Knights On The Town prosegue sulla stessa falsariga, proponendo peraltro un immaginario agli antipodi da quello dannato ma un po’ semplice di alcune band coeve. L’entusiasmo della band è straordinario, a tratti quasi da complesso adolescenziale; se la critica storce il naso, il pubblico apprezza e la chitarra di Crispian pare riportare quasi ai fasti di prima del punk.

La breve Temple of Everlasting Light mette invece in scena il lato più acustico e mistico della band. In alcuni passaggi certi ricami orientaleggianti ricordano Paranoid Android dei Radiohead, ma il ritornello solare sposta completamente i riferimenti. La chitarra liquida e psichedelica sul finale evoca quasi i primi, bucolici Pink Floyd, altro nume dei ragazzi.

La successiva Govinda costituisce un vero unicum per la musica britannica; si tratta infatti dell’unico pezzo cantato in sanscrito capace di entrare nella Top 10 delle vendite, al settimo posto. Musicalmente il brano sta dalle parti dei Beatles più esotici, con una bella parte di chitarra elettrica, molto evocativa e cori femminili che trascinano in atmosfere indiane più o meno genuine.

Smart Dogs è ancora un pezzo che riporta agli anni Settanta, con un rutilante riff di chitarra. I riff, diciamolo, sono una delle parti in cui Mills riesce meglio, creando frasi in tutto e per tutto blues senza però che il genere risulti troppo invasivo per le orecchie dei fan anni Novanta, poco educate in materia.

La successiva Magic Theatre è un delicato bozzetto psichedelico, dalla sghemba melodia guidata dal pianoforte. La voce di Mills è filtrata è pare arrivare direttamente dal mondo onirico, facendosi portatrice di una dolce melodia. La chitarra slide aggiunge magia, evocando il fantasma di David Gilmour. Due minuti e mezzo di perfezione cristallina.

Into the Deep è un pezzo pop che non lascia troppi segni, mentre Sleeping Jiva è un breve strumentale esotico che introduce Tattva. Il brano è quello che lancia i Kula Shaker nelle classifiche ed è un gioiellino di perfezione pop, tanto ruffiano quanto irresistibile. Tattva è di nuovo una parola in sanscrito, cantata su un tappeto tra pop e funk e con un ritornello incredibilmente accattivante, o catchy, come si direbbe da quelle parti.

L’incedere beatlesiano e un breve ma efficace assolo di chitarra fanno il resto; Tattva è tuttora uno dei brani simbolo degli anni Novanta.

Il tempo di riprendersi dalla meraviglia e un riff hendrixiano ci risveglia come un gancio ben assestato. Grateful When You’re Dead si apre con una chitarra wah-wah al fulmicotone, roba mai sentita dai ragazzini educati dal Britpop, una vera sferzata di energia anni Settanta. La voce di Mills è qui graffiante e la chitarra talmente pertinente che non ha nulla da invidiare a celebrati guitar hero.

La seconda parte del pezzo, Jerry Was There, mischia ancora le carte; percussioni esotiche, la chitarra che si fa liquida in omaggio a Jerry Garcia e alla West Coast. Robuste pennate che scuotono come il rock dovrebbe fare e la voce quasi salmodiante di Crispian che evoca lo spirito del musicista dei Grateful Dead.

Viene da domandarsi, con tutto il successo ottenuto tra i giovani inglesi dell’epoca, in quanti riuscissero a cogliere le citazioni dei Kula Shaker.

La successiva 303 si apre ancora col wah-wah del chitarrista e si dipana in territori tra il rock blues dei Cream e il pop anni Novanta. La voce di Crispian Mills è davvero perfetta per duttilità e grinta. La domanda – a sentire oggi questi pezzi – si affaccia malandrina alla mente: se un gruppo come i Maneskin riuscisse a suonare credibile in ambito rock anche la decima parte dei Kula Shaker, in quanti griderebbero al miracolo?

Rimangono ancora due pezzi per chiudere K; Start All Over è una bella ballata irrorata da un filo di elettricità e dal ritornello solare. La lunga Hollow Man, divisa in due parti, si muove ancora in territori psichedelici, guidata dal piano e dalla chitarra slide. La prima parte si muove tra i Pink Floyd dei primi Settanta e la coda strumentale di Layla; la seconda è cantata e va dall’iniziale folk a un crescendo quasi epico.

K si conclude così, dopo tredici pezzi; senza un paio di riempitivi l’album sarebbe un capolavoro dall’inizio alla fine, ma anche così rimane uno dei lavori simbolo del decennio. Purtroppo la gloria dei Kula Shaker sarà effimera; la band è forse troppo avulsa al suono nineties per andare al di là del successo occasionale. Il 1997 è comunque l’anno del trionfo per i Kula Shaker, sia per i premi che per l’incredibile successo di Hush, cover del pezzo di Joe South inciso anche dai Deep Purple.

Peasants, Pigs & Astronauts arriva forse con un anno di ritardo, quando l’hype si è già sgonfiato; nonostante sia un lavoro dignitosissimo, quasi al livello di K, risulta leggermente pretenzioso e non riscuote il successo che meriterebbe. Un incredibile malinteso sulla svastica come simbolo religioso trascina Mills in polemiche sul nazismo e finisce per pesare sulla band, che si scioglie alla fine del Millennio.

Dopo qualche anno i Kula Shaker tornano insieme, con Harry Broadbent alle tastiere al posto di Darlington. Ormai i tempi dei grandi successi sono lontani e i ragazzi sono quattro maturi musicisti rock. I successivi album, depurati di qualche eccesso orientaleggiante, suonano benissimo ma non riescono a ripetere la magia di K.

— Onda Musicale

Tags: Deep Purple, The Beatles, Blur, Oasis, Grateful Dead
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