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Barn è il nuovo disco di Neil Young ed è un piccolo capolavoro rock

Neil Young e Barn

Caso più unico che raro tra le grandi glorie del rock, Neil Young continua a sfornare dischi all’altezza degli anni migliori. Ed è cosi anche per Barn, quarantunesima fatica per il Loner canadese.

Neil Young – a settantasei anni suonati – può ben dire di aver attraversato la storia del rock. Dagli esordi coi Buffalo Springfield alla leggendaria avventura con Crosby, Stills e Nash, la voce sghemba e la chitarra acida di Neil hanno accompagnato tutte le rivoluzioni musicali degli ultimi cinquant’anni.

Gli esordi da folksinger un po’ hippie, le incredibili armonie vocali con gli amici di sempre dei CSN&Y, ma anche la psichedelia grezza e acida dei suoi Crazy Horse. Ma il tratto più incredibile di Young è quello della duttilità; a differenza di altri, il buon Neil è sempre riuscito nell’impresa a dir poco disperata di rimanere fedele a se stesso e – nello stesso tempo – guadagnarsi il rispetto delle nuove leve.

Mentre il punk spazzava via il rock sempre più complesso di fine anni Settanta, Neil era lì, rispettato anche dal movimento più iconoclasta; sopravvissuto senza sbandamenti all’edonismo anni Ottanta, il canadese è stato adottato come nume tutelare dal grunge, e non solo per le camicie a quadri che indossava già da fine anni Sessanta.

E oggi, in piena era di streaming e società – musica – liquida, Neil è più che mai il baluardo delle battaglie ecologiche, sua ultima ma non unica crociata. Ma Young è anche una persona e un artista pienamente realizzata; senza cercare di apparire ancora giovane suona attualissimo, e senza curarsi delle apparenze care al jet set si ritrova sposato con una delle attrici più quotate e affascinanti di Hollywood, Daryl Hannah.

Ma quello che più conta è – come sempre – la musica.
Neil, da solo o con vecchi amici che non si sono persi per strada, continua a macinare musica, pubblicando con ritmi insostenibili per le giovani leve. I suoi compagni dei tempi d’oro ancora in attività si limitano – come i Rolling Stones, per dire – a tour milionari e a dischi raccogliticci ogni dieci anni; ma anche artisti giovani come Arcade Fire e compagnia bella impiegano anni per qualche nuova uscita.

Young no, fedele al verbo dell’improvvisazione e del buona la prima, continua a deliziarci coi suoi lavori piacevolmente grezzi. Sempre diversi e sempre uguali a sé stessi, in un miracoloso equilibrio di cui solo lui conosce gli ingredienti.

Barn non si differenzia dalle coordinate del Neil Young degli ultimi cinquant’anni. Già dalla copertina la direzione è ben chiara; la foto, scattata proprio da Daryl Hannah, mostra un fienilebarn in inglese – sotto il cielo delle amate Rocky Mountains. Sulla soglia, quattro uomini. C’è Neil, ovviamente, e con lui la sezione ritmica dei sodali di sempre, i Crazy Horse.

Ralph Molina alla batteria e Billy Talbot al basso, con l’assenza di Frank Poncho Sampedro alla chitarra. Mancanza che però si fa sentire sì e no, se pensiamo che al suo posto Neil ha convocato il grande Nils Logfren, battitore libero del rock anni ’70 e ’80, già con la E Street Band di Bruce Springsteen.

Barn si compone di dieci canzoni che, fortunatamente, non propongono nessuna rivoluzione; è infatti un piacere ritrovare il suono del buon vecchio Neil Young, con una salvifica alternanza di folk con tanto di armonica e svisate rock con la chitarra abrasiva e poco educata del bandleader.

Il materiale di Barn è stato scritto durante l’ultimo anno; nessun ripescaggio del tempo che fu e niente brani tirati fuori da chissà dove. Neil Young è ben piantato nella realtà di tutti i giorni, e il suo sguardo di instancabile compositore è ancora lucido e indagatore quanto e più di tanti autori contemporanei.

L’apertura di Barn spetta a Song of the Season.
Parte il disco e subito quell’armonica e quella chitarra acustica sembrano riportarti a casa; e se chiamano comfort food quelle ricette tradizionali che sanno di casa e radici, si può ben parlare di comfort music per un attacco del genere. La voce fragile e al limite della rottura, eppure sempre così sicura, traccia una melodia senza tempo, con una fisarmonica che ondeggia in sottofondo.

Il testo ecologista, le atmosfere che riportano ad Harvest: non manca nulla per iniziare l’album con sei minuti di pura magia.

Come da specialità della casa, all’attacco acustico segue subito la prima accelerazione rock, Heading West. Il testo è autobiografico e ripercorre la giovinezza, quando la madre – dopo la separazione – cambiò latitudine andando a vivere a ovest. Santa donna, verrebbe da dire, visto che in un verso Neil rievoca di quando gli regalò la prima chitarra.

Sometimes it feels alright/Livin’ in a western town/Mommy got me my first guitar

L’andamento è quello del tipico rock sostenuto ma non troppo, con un bel ritornello contagioso e un’atmosfera tutto sommato allegra. Neil sfodera qui il primo assolo elettrico di Barn, appena accennato, e scatta subito la magia della sua sei corde. Pochi chitarristi – benché sicuramente più tecnici – sono in grado di giocarsela alla pari col canadese quanto a feeling.

Con Change Ain’t Never Gonna spariglia ancora le carte.
Siamo dalle parti di un honk tonk blues alla maniera di Bob Dylan, un po’ sbilenco ma credibilissimo, con un piano da juke joint del sud. Il rapporto di Young col blues è sempre rimasto negli anni appena accennato, toccando l’apice con On the Beach, ma la sensibilità del cantautore alle prese con questo genere è comunque rimarchevole.

Canerican pesta di nuovo sull’acceleratore elettrico, con tanto di chitarra distorta e sferragliante. Il testo rivendica con orgoglio la doppia cittadinanza americana e canadese del cantante; quella statunitense è peraltro arrivata solo recentemente, richiesta proprio per votare Biden e dare il proprio contributo alla chiusura della terribile era Trump.

A livello strumentale Canerican è una delle pagine più riuscite di Barn, con un arrangiamento pesantemente elettrico. Il ritornello coi cori fa tanto West Coast, mentre le frasi chitarristiche richiamano un po’ gli intarsi di Bruce Cockburn, prima che un assolo incendiario sfumi assieme al pezzo.

Shape of You è ancora una volta un blues sghembo e spruzzato di country, con la bella chitarra di Logfren che scintilla nei fill. Il testo – romantico ma non stucchevole – è dedicato all’amata Daryl.

They Might Be Lost cambia decisamente atmosfera; lenta e ombrosa, la ballata evoca le tante presenze che sono rimaste indietro lungo la strada. E Neil può ben cantare di amici e colleghi che non ci sono più, travolti da eccessi da rockstar o fatalità della vita. Un pezzo da brividi, tra le vette di Barn.

Human Race, se ce ne fosse bisogno, è forse la miglior spiegazione del perché Neil Young sia ancora oggi tra i rocker più influenti e rispettati. Il pezzo è puro rock ad alto potenziale elettrico, dall’andatura sostenuta e dal testo che colpisce duro. Ma è l’assolo di chitarra di Young a dare la giusta misura della sua grandezza; la Gibson urla, distorta e straziata, colpendo le corde di chi ascolta come il rock dovrebbe fare, chiarendo che arrivare al cuore attraverso la chitarra elettrica non è roba per ragazzini.

Il furore con cui Young percuote le corde del suo strumento è degno della ribellione, quella vera, del rock di quando il rock esisteva per davvero.

Ancora il tempo di una ballata quasi pop-country come Tumblin’ Trough the Years e arriviamo a un altro dei pezzi forti di Barn, Welcome Back. Qui il gioco delle somiglianze si fa sfizioso, per un appassionato della discografia younghiana. Il ritmo lento, le robuste pennate, il canto quasi da spoken e la lunga durata richiamano alla mente mostri sacri come Cortez the Killer.

L’ampio respiro lascia carta bianca al Neil Young chitarrista; in oltre otto minuti la Gibson viaggia tra dolci melodie e svisate sapientemente brusche e acide. Non una sola nota di Welcome Back suona nuova, intendiamoci, eppure il pezzo è sicuramente il climax del disco. Otto minuti e mezzo di pura goduria rock. E un manuale di chitarra elettrica per chi pensa che conti solo la tecnica.

Dopo tanto pathos la chiusura di Don’t Forget Love fa quasi da camera di decompressione; una ballata leggera come l’aria, col falsetto di Young che ripete quasi come un mantra di non dimenticare l’amore.

Barn si chiude qui e c’è ben poco da aggiungere, se non aspettare la prossima rimpatriata con Neil e i suoi amici. Un ritorno a casa da cui nessun appassionato di rock che si rispetti può sfuggire.
E – diciamocelo – chi vorrebbe?

— Onda Musicale

Tags: Neil Young, Crosby, Stills, Graham Nash, E Street band
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