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Pet Shop Boys e “Actually”, il suono dell’elettronica anni Ottanta

La copertina di Actually dei Pet Shop Boys

Il 19 agosto del 1981 ha luogo uno di quegli eventi di per sé insignificanti, ma che mettono in moto una serie di meccanismi decisivi per il pop degli anni ’80. In un negozio di elettronica di King’s Road, a Londra, si conoscono Neil Tennant e Chris Lowe. Loro non lo sanno, ma quel giorno nasce il duo di più grande successo della storia del pop, i Pet Shop Boys.

Neil Tennant ha 27 anni ed è una piccola celebrità nell’ambiente musicale di Newcastle; ha imparato a suonare la chitarra e il violoncello e si è fatto qualche esperienza in una band folk rock, i Dust, epigoni della Incredible String Band. Dopo aver lavorato nel mondo editoriale e per la Marvel, è riuscito a entrare nel mondo della musica che conta, seppure dalla porta di servizio. Neil, infatti, è uno dei principali redattori della nota rivista musicale Smash Hits.

Chris Lowe è invece 22enne e ha la musica nel sangue, grazie a un nonno trombettista jazz. Lui suona il trombone e il pianoforte, e ha già fatto parte di qualche piccolo complesso. La sua strada pare però quella dell’architettura. Fino a quel fatale incontro.

Tennant è appassionato di musica elettronica, dai Kraftwerk alla nascente New Wave inglese, e ha le idee piuttosto chiare sul tipo di musica che vorrebbe suonare. I gusti dei due ragazzi convergono e così decidono di provare a dare corpo a qualcosa di buono assieme; i giovani iniziano a provare prima a casa di Neil, a Chelsea, poi in un piccolo studio di Camden Town.

Dall’ispirazione di alcuni amici comuni che lavorano in un negozio di animali, i due si danno il celebre moniker Pet Shop Boys. Secondo Tennant e Lowe – vai a capire perché – il nome dovrebbe richiamare alla mente una band di rap inglese. Dopo una serie di peripezie tra Usa e Gran Bretagna, nel 1985 il duo firma per la Parlophone. Una serie di singoli di successo precede l’uscita di Please, il primo album.

Il disco inaugura la tradizione sempre rispettata di intitolare i lavori con una sola parola. Il fenomeno Pet Shop Boys finalmente esplode.

Il 1987 è l’anno fenomenale della piccola band; inizia con la vittoria di alcuni prestigiosi premi, il Brit Award e l’Ivor Novello per West End Girls. Prosegue con due singoli che destano grande scalpore per motivi che vedremo e si chiude con l’incredibile successo di Actually, secondo album che esce il 7 settembre.

Le caratteristiche del duo sono ben definite e – allo stesso tempo – rivoluzionarie per il pop dell’epoca. Tennant è una specie di intellettuale dell’electro-pop, genere fino ad allora a esclusivo appannaggio dei dance-floor. I suoi testi sono lirici e spesso finemente polemici, la sua vocalità è inconfondibile, incredibilmente espressiva e dotata di un miracoloso falsetto.

Chris Lowe presto adotta il look con occhiali da sole e berrettino, e dal vivo se ne sta immobile dietro le sue tastiere. Pare che non faccia nulla – come malignano alcuni – ma il suo apporto è fondamentale. La musica si fonda su un irresistibile battito elettronico e su melodie senza tempo, incrociando i beat dei Kraftwerk con le linee melodiche del pop anni ’60.

Altrettanto fondamentale è l’immagine del duo, curatissima e raffinata ma all’insegna di un ostentato basso profilo; una vera contraddizione in termini che certo non dispiace a Tennant, portatore sano del tipico humor britannico. Inoltre, si vocifera spesso intorno alle tendenze sessuali dei due, all’epoca ancora motivo di scandalo. I Pet Shop Boys strizzano l’occhio al mondo della moda – basti citare Paninaro – e i loro videoclip sono piccoli capolavori di storytelling.

Actually è poi uno di quei miracoli che riescono una volta anche nella carriera dei più grandi. Un disco in miracoloso equilibrio tra pop commerciale e musica d’autore. Soprattutto, Actually è un lavoro che ospita undici canzoni meravigliose: ognuna potrebbe essere un singolo di successo.

La copertina ritrae – su uno sfondo immacolato – i Pet Shop Boys in smoking; Chris Lowe, primo di occhiali e berretto e Neil Tennant che sbadiglia voluttuosamente.

L’album si apre con One More Chance, un beat elettronico quasi tribale, che mette in luce la passione dei Pet Shop Boys per gli effetti ambientali. La base del pezzo era stata scritta in origine dal produttore Bobby Orlando, con cui i musicisti collaborano ancora prima di Please, a cui Tennant ha aggiunto liriche che affrontano il tema del masochismo e di quella che definisce paranoia romantica.

Subito emergono le caratteristiche distintive del duo; la strofa quasi recitata da Tennant e l’esplosione di qualsiasi tensione in un ritornello catchy. L’ironia e l’understatement tutti britannici fanno il resto.

Il secondo brano è What Have I Done to Deserve This? ed è uno dei singoli che precedono l’uscita dell’album. Si tratta di un duetto con Dusty Springfield, cantante celebre nei decenni precedenti che in quel periodo affronta un momento difficile e un calo di notorietà. Dusty – per capirci – può essere considerata nel suo paese come lo è Mina per gli italiani.

Il brano era già pronto per Please ma i Pet Shop Boys e la Parlophone non riuscirono ad accordarsi sulla parte femminile del duetto. Neil, fervente fan di Dusty, vuole la Springfield a tutti i costi; l’etichetta preme per Tina Turner o Barbra Streisand. Alla fine la spunta Neil e – come sempre – la sua è l’intuizione giusta.

Il brano diventa subito un grande successo, i critici lo considerano tra i migliori duetti della storia del pop e, negli anni, la canzone diventa un’icona LGBT. La carriera di Dusty, che all’inizio aveva rifiutato il duetto, conosce una nuova giovinezza.

Shopping è un pezzo leggermente più duro, con utilizzo di voci filtrate elettronicamente nel ritornello. Come tono generale ricorda un po’ alcune delle prime cose dei Depeche Mode, altra band elettronica di grande successo all’epoca.

La successiva Rent è invece una ballata più lenta e melodica, altro singolo accompagnato da un famoso video. Si ripropone la strofa quasi in spoken e la successiva esplosione melodica del brano, un vero manuale del synth-pop anni ’80. Il testo allude a una relazione tra una personalità di spicco, che lega a sé l’amante col solo potere del denaro.

Ancora una volta la melodia azzeccata e la misura negli arrangiamenti e nella vocalità di Tennant lasciano stupefatti.

Si prosegue con Hit Music, pezzo minore in un certo senso, anche se in Actually nessun brano lo è davvero. La ritmica sembra quasi un surf-rock in chiave elettronica, il testo è un’ironica allusione alla musica commerciale che i Pet Shop Boys sono a volte accusati di incarnare.

La seconda facciata del vinile si apre con It Couldn’t Happen Here, una delle vette artistiche del disco. Il brano dà anche il titolo a un lungometraggio che – sull’onda del successo – viene realizzato di lì a poco; in verità un film dimenticabile, che ha il merito di fornire materiale per alcuni videoclip.

Il brano vede la collaborazione di Ennio Morricone, inizialmente contattato per l’arrangiamento di Being Boring; il Maestro è chiaro: preferisce lavorare su qualcosa di totalmente nuovo, e così nasce il brano. Il testo rievoca la tragica storia di un amico deceduto per l’AIDS, allora nuova piaga. Il titolo allude proprio a una conversazione, in cui si ipotizzava che il male non sarebbe mai arrivato a mietere vittime fuori dagli Stati Uniti.

La mano di Morricone si vede nell’andamento epico del brano, soprattutto nella dicotomia tra la strofa cupa e triste e il ritornello, malinconico e solare al tempo stesso. Gli arrangiamenti orchestrali – ricreati al sintetizzatore – sono opera di Angelo Badalamenti. It Couldn’t Happen Here è sicuramente il climax di Actually, assieme alla traccia successiva, in un’accoppiata decisamente irripetibile.

Siamo infatti giunti a It’s A Sin, uno tra i primi brani composti dai Pet Shop Boys e uno dei più celebri ancora oggi. La musica, epica e melodrammatica, viene resa ancora più espressiva dagli effetti ambientali di un temporale che rende l’atmosfera gotica del pezzo, grazie anche a un videoclip a tema diretto da Derek Jarman. La melodia ha dell’incredibile, una gemma assoluta del pop.

Il testo – scritto di getto da Tennant in un quarto d’ora – rievoca con orrore l’educazione ricevuta nella scuola frequentata da ragazzo, la St. Cuthbert’s Grammar School di Newcastle Upon Tyne. Si tratta di un istituto cattolico, ambiente verso cui il buon Neil avrà altri sassolini da togliersi dalle scarpe. Nonostante non venga mai citata nel testo, con uno dei più classici casi di coda di paglia, la scuola monta una dura polemica sulla canzone. Immaginiamo Tennant che se la ride sotto ai baffi, in questo caso.

Non solo, It’s A Sin è al centro di un’altra querelle, ancora più assurda della precedente, se possibile.

Jonathan King, dj e fautore – o colpevole, fate voi – del primo disastroso album dei Genesis, ravvisa nella canzone un plagio di Wild World, scritta a suo tempo con Cat Stevens. Mentre Cat si tiene saggiamente alla larga da qualsiasi pretesa, King arriva a reincidere Wild World clonando l’arrangiamento di It’s A Sin, in una sorta di delirio mistico.

L’operazione mette in luce due verità. La prima è che tra le due canzoni non vi sia la minima somiglianza, la seconda è che – con l’inconfondibile arrangiamento – somiglierebbe a It’s A Sin anche Fra’ Martino Campanaro.

Ma non è finita. I Pet Shop Boys lo citano in giudizio per aver goffamente utilizzato il loro arrangiamento, vincono la causa e devolvono il cospicuo risarcimento in beneficenza. Per una volta, giustizia è fatta.

Actually si chiude con altri tre brani. I Want To Wake Up è un’altra ballata elettronica che farebbe la figura del capolavoro in qualsiasi album di questo genere. Qui finisce per rimanere quasi dimenticata.

Heart è un altro singolo, ancora una grande intuizione melodica del duo in un brano perfetto. La canzone risale ancora ai tempi di Please e inizialmente doveva essere proposta a Madonna. Alla fine, nonostante il testo meno complesso del solito, la band decide di inciderla. Le parole sono una semplice dichiarazione d’amore, la melodia come sempre ineccepibile, ma è forse il video a rendere immortale Heart.

Girato in Slovenia – all’epoca Jugoslavia – nel castello di Mokrice, il corto rievoca la storia di Dracula in chiave ironica. A interpretare il celebre Conte succhiasangue, Ian McKellen, grande attore di teatro britannico, celeberrimo in futuro per Il Signore degli Anelli.

La chiusura di questo capolavoro è affidata a King’s Cross, ancora un brano cupo e perfetto, con un testo particolarmente ispirato. Purtroppo la strofa in cui Tennant allude a dei morti (Dead and wounded on either side), si rivela sinistramente profetica. Il 18 novembre del 1987 un incendio devasta proprio la stazione della metro di King’s Cross, provocando 31 morti e 100 feriti.

Il Sun chide a lungo che il pezzo esca come singolo per beneficenza, ma i Pet Shop Boys si rifiutano sempre, per rispetto dei parenti delle vittime.

Actually è dunque l’album perfetto dei Pet Shop Boys, ma forse bisognerebbe dire uno degli album perfetti. Il loro stato di grazia – infatti – continua per tutti gli anni Ottanta e in parte fino ad oggi, al netto dell’inevitabile tempo che passa.

— Onda Musicale

Tags: Kraftwerk, Ennio Morricone, Pet Shop Boys, Tina Turner
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