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Violator, il disco che consegna i Depeche Mode all’immortalità

I Depeche Mode ai tempi di Violator

Molto spesso, nella storia del rock, gli artisti danno il meglio quasi subito; basti pensare agli esordi dei Led Zeppelin, dei King Crimson e di tante altre band. Poi ci sono le eccezioni, come i Depeche Mode, che riescono a mettere tutti d’accordo al settimo tentativo.

Sono infatti sei gli album della band di Basildon che precedono Violator, unanimemente ritenuto il loro capolavoro. Infatti, Violator è un po’ il The Dark Side of The Moon dei Depeche Mode, ovvero un disco che non tutti ritengono il loro migliore, ma sicuramente quello che più è rimasto nell’immaginario collettivo.

Violator contiene i pezzi più famosi, Personal Jesus e Enjoy the Silence, certo; ma è anche il lavoro più compatto, una potenziale miniera di singoli e il disco che incarna il suono di un’epoca.

I Depeche Mode nascono a Basildon, cittadina dell’area di Londra, alla fine degli anni ’70. Siamo nel 1976 Vince Clarke, Mark Pex e Andrew Fletcher formano una band chiamata No Romance in China. Il progetto non ha nessun riscontro e Vince riprova da capo quando conosce Martin Lee Gore. Il giovane suona in un altro progetto, i Norman and the Worms.

I due pensano dapprima di chiamare la nuova band French Look, poi – a dimostrazione che coi nomi sono un disastro – scelgono Composition Of Sound. Siamo intanto arrivati al 1980 e al progetto manca ancora un vero e proprio cantante. Quando Vince sente cantare la cover di Heroes di David Bowie in un locale, si incuriosisce di quel giovane col ciuffo che vede sul palco.

Magrissimo, col viso del bravo ragazzo e una vocalità ancora un po’ acerba, il ragazzo è Dave Gahan. L’accordo è presto concluso e Dave entra nel complesso, portando con sé la prima intuizione geniale: cambiare il nome. Nascono i Depeche Mode, espressione francese che vuol dire – più o meno – gazzettino della moda, ed è infatti il titolo di una rivista.

Ispirati dal lavoro dei Kraftwerk, ma non insensibili al sound di gruppi coevi come Soft Cell e The The, i Depeche Mode iniziano a farsi notare. Qualche singolo e alcune partecipazioni a compilation a tema, e nel 1981 è già tempo di far uscire il primo album, Speak & Spell. Il suono è molto diverso da quello che li porterà nel mito: un’elettronica sbarazzina e ballabile, col marchio di Vince Clark.

Can’t Get Enough, pezzo leggerino dall’andamento quasi di una filastrocca, diventa subito un tormentone. Sembra impossibile, guardando l’ingenuo videoclip, che i Depeche Mode siano gli stessi di qualche anno dopo, quando diventeranno icone dark. I video d’autore di Anton Corbijn, col loro espressivo bianco e nero, e la voce profonda e dannata di Gahan, sono ancora al di là da venire.

Il primo, timido successo fa però subito la prima vittima. Allergico alla vita da star, Vince Clark abbandona la sua creatura per rimanere più defilato. Prima gli Yazoo, con Alison Moyet, e infine gli Erasure gli garantiranno comunque un buon riscontro.

Senza Clark, è Gore che si prende sulle spalle la parte compositiva e i Depeche Mode vanno avanti pubblicando praticamente un disco all’anno. Questo fino al 1986 quando Black Celebration segna la nera rinascita della band. Anche se nei lavori precedenti qualche segno si poteva cogliere, il disco è un netto spartiacque. Ora le atmosfere si fanno scure e gotiche, la ritmica elettronica cupa e pulsante; la voce di Gahan, da quella di ragazzino imberbe è diventata baritonale e maledetta. L’immagine è raffinata e inquietante.

Music For the Masses prosegue la via tracciata e il grande successo di Never Let Me Down Again apre le porte del mercato americano. I tempi sono maturi per il disco che rende i Depeche Mode delle star mondiali: un percorso da cui non si torna indietro, e che porterà anche una serie di guai, specie a Dave Gahan.

In una parola, Violator.
L’album prende forma tra il maggio del 1989 e gennaio 1990. Le registrazioni avvengono ai Puk Studios in Danimarca e ai Logic Studios di Milano. La produzione è degli stessi Depeche Mode, coadiuvati da Flood, nom de plume di Mark Ellis. Come già nei precedenti album, quelli del nuovo corso, la band riscopre gli strumenti tradizionali, con Martin Gore che si cimenta alla chitarra elettrica, tracciando poche ma fondamentali note.

Il lavoro si apre con World in my Eyes, brano dominato dai synth e dalla drum machine, oltre che dalla voce gelida di Gahan. Sembra quasi di ascoltare dei Pet Shop Boys meno raffinati e intellettuali ma più cupi e duri. Ed è proprio Neil Tennant, con la solita ironia, a dare la misura dell’importanza in quel periodo di Violator:

“Abbiamo ascoltato Violator (durante le session di Behaviour n.d.r.) dei Depeche Mode, che è un album molto bello e ne siamo profondamente gelosi”. Lo stesso Chris Lowe, tastierista dei Pet Shop Boys, rincara la dose: “Loro hanno alzato il livello della qualità”.

L’intro chiarisce insomma le atmosfere che incontreremo in Violator: toni gelidi ed elettronici, ma anche grandi aperture melodiche.

Si va avanti con Sweetest Perfection, cantata da Martin Gore. La vocalità di Martin è sottovalutata ma altrettanto suggestiva di quella del frontman Gahan. Il brano inizia a strizzare l’occhio a suggestioni blues, dal tonitruante riff di basso all’andamento lento e maestoso. Un brano oscuro che non sfigura affatto in quel pugno di canzoni killer che è l’album.

Già al terzo pezzo arriva però uno dei colpi del K.O. del lavoro, Personal Jesus.
Ispirandosi ad alcuni passi dell’autobiografia di Priscilla Presley, Gore inventa un testo sull’amore ossessivo e centra un’immortale riff di chitarra blues. È curioso che una delle più grandi band di synth-pop della storia scriva il proprio capolavoro ricorrendo agli stilemi del blues, forse il genere a loro musicalmente più lontano.

Eppure, a rifletterci, nemmeno tanto, se pensiamo alle atmosfere sempre più oscure, al malessere esistenziale rintracciabile nelle liriche di Gore e al vortice di droga e depressione che sta per avvolgere Gahan. Il brano – c’è poco da dire – è irresistibile, tanto da essere ancora oggi passato ossessivamente in radio, giovandosi anche di una strabiliante e meravigliosa cover di Johnny Cash. Personal Jesus è – in una parola – un classico.

Quello che stupisce di Violator è l’incredibile compattezza: non un calo di tensione, non un solo pezzo riempitivo. Halo inizia come un brano dei Pet Shop Boys e prosegue su una base elettronica minimale. Entra la batteria e la seconda strofa porta il brano all’ennesimo ritornello riuscitissimo, un’apertura memorabile che sfugge alla definizione di capolavoro solo perché attorniato da altre canzoni fortissime.

Waiting for the Night continua a stupire. Una delicatissima pulsazione elettronica, ai limiti dell’ambient, per una ballata notturna che commuove, tanto è il pathos. Un pezzo che è quasi un mantra.

La coda elettronica chiude il brano e introduce l’altro capolavoro indiscusso di Violator, Enjoy the Silence. Si tratta forse del pezzo più celebre, oltre a quello che ha più venduto, nella carriera della band di Basildon. Su un semplice e lineare riff di chitarra si dipana una melodia senza uguali, cantata perfettamente da Dave Gahan. Il cantante, lungi dall’avere un’ugola miracolosa, dimostra però di essere il vocalist perfetto per le atmosfere del complesso.

Il video di Anton Corbijn, con un Gahan in versione sovrano che vaga con una sedia sdraio per paesaggi inusitati, fa il resto. Il brano, curiosamente, era stato pensato da Gore come una lentissima ballata per harmonium; la band deve qualcosa più di un grazie a Flood e Alan Wilder, che insistono in sede di produzione per velocizzarla e per un arrangiamento più ricco.

Enjoy the Silence ha una coda di circa due minuti, una ghost track strumentale intitolata Crucified, che nasconde un omaggio ai Pink Floyd. La voce distorta con cui Andy Fletcher esclama la parola “Crucified!” è infatti identica a quella con cui Nick Mason dice “One of these days I’m going to cut you into little pieces!” nella famosa One of These Days.

Policy of Truth è un altro pezzo forte del canzoniere dei Depeche Mode.
Ancora un riff di chitarra, suonato con la slide, e di nuovo un passaggio da manuale dalla strofa all’apertura del ritornello. Un ennesimo singolo killer che entra in qualsiasi Top Ten del gruppo.

La chiusura è per due classici minori, Blue Dress e Clean.
Il primo, cantato da Gore, è un momento di riflessione, dove le luci si spengono e i ritmi calano. Un bellissimo passaggio di pianoforte annuncia il ritornello, anche se in realtà il brano ha un crescendo continuo che pare quasi evocare il gospel, altro genere che la band frequenterà in futuro.

Dopo un altro breve interludio strumentale, dai toni quasi morriconiani, si arriva all’ultimo brano. Clean, nell’iniziale pulsare del basso campionato, nasconde un altro omaggio ai Pink Floyd. La linea dello strumento è infatti pressoché identica a quella di One of These Days. La canzone ha un incedere minaccioso e quasi ossessivo; la voce di Dave Gahan è qui incredibilmente profonda e pulita, come nel titolo stesso.

Una chiusura eccezionale, anche se la canzone rimane minore nel repertorio dei Depeche Mode.

Violator vende moltissimo in tutto il mondo e segna l’esplosione definitiva del complesso. Da allora, per Gahan e soci, l’album è una sorta di assicurazione sulla vita, un lasciapassare per la storia della musica che permette loro di rimanere dei mostri sacri per i decenni successivi.

Ma non è un’assicurazione per le vicissitudini della vita. Gahan, di lì a qualche anno, logorato dai tour e dalla desiderata vita da superstar, finirà nel gelido abbraccio dell’eroina e – solo dopo un tentativo di suicidio – tornerà in buona forma.
La storia del rock, del resto, è piena di vicende dannate; non altrettanto di dischi perfetti come Violator.

— Onda Musicale

Tags: Kraftwerk, Depeche Mode, Dave Gahan
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