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Texas Flood di Stevie Ray Vaughan, far rinascere il blues negli anni ’80

Texas Flood di Stevie Ray Vaughan

Gli anni Ottanta sono rimasti nella storia della musica per tanti motivi, dall’elettronica alla New Wave, passando per il fenomeno dei videoclip. Certo non sono stati anni di fervido successo per il blues, eppure proprio nel giugno del 1983 vede la luce Texas Flood, album d’esordio di Stevie Ray Vaughan.

Texas Flood è un fulmine a ciel sereno per il rock patinato e poco incline ai virtuosismi blues che impera in quegli anni. La Musica del Diavolo, vero motore del predominio rock da metà anni Sessanta fino all’inizio dei Settanta, è infatti passata nel dimenticatoio già da un po’. Esattamente dall’avvento del rock progressivo prima, e dal punk, nemesi dei virtuosismi tecnici.

Ma da dove arriva Stevie Ray, il selvaggio chitarrista che riporta in auge una musica che pareva ormai destinata solo ai nostalgici? Quando esce Texas Flood, Stevie Ray Vaughan ha già quasi trent’anni e una solida gavetta alle spalle. Ha anche inciso un album nel 1979, ma il disco non ha mai visto la luce. Per capire chi sia il musicista texano, occorre però fare un passo indietro, quando lui e il fratello Jimmie si appassionano al blues.

Siamo nel Texas di fine anni ’50, un posto dove il blues è affare più che altro da neri e i ragazzi si interessano a cose tipicamente americane; le ragazze, le armi e il football. E il fratello di Stevie, Jimmie, è appunto una giovane promessa del football americano; quando ha un grave infortunio, che lo costringe a stare fermo per molto tempo, qualcuno gli regala una chitarra e apre senza saperlo la prima porta del destino di Stevie.

Jimmie Vaughan si appassiona al blues e al rock’n’roll, tanto che ancora oggi è un bravissimo chitarrista con un ottimo passato coi Fabulous Thunderbirds e, cosa fondamentale, fa appassionare anche il fratello.

Presto la chitarra blues diviene ragione di vita per il giovane Stevie Ray, specie la Stratocaster del ’62 che acquista nel 1973. Con la sua band diventa una piccola celebrità in Texas, girando per i più malfamati locali dello stato a proporre il proprio infuocato stile. Ci sono molte registrazioni di live dell’epoca, basta ascoltarle per capire quanto Stevie Ray fosse già giunto a maturare completamente la sua cifra.

Per tecnica, furore e voce graffiata, ricorda il compaesano Johnny Winter, da cui mutua anche il bassista Tommy Shannon. Altra influenza è il semisconosciuto Lonnie Mack, ma Stevie Ray Vaughan rielabora soprattutto il chitarrismo di Albert King. I fraseggi sono presi di peso da quelli del suo eroe, a cambiare è soprattutto il suono, molto più saturo ed effettato. In questo senso la musica di Stevie paga un pesante pegno alla rivoluzione di Jimi Hendrix, altro suo idolo.

Stevie Ray è dunque un apprezzato guitar hero locale, tuttavia il grande successo non arriva, mentre Jimmie coi suoi Thunderbirds e il suo stile più secco se la cava alla grande. È a questo punto che arriva la grande occasione. Mick Jagger lo nota dal vivo e, con l’apporto di Jerry Wexler dell’Atlantic, gli rimedia un prestigioso ingaggio per il Montreux Jazz Festival, in Svizzera. Una serata della manifestazione è dedicata al blues e Vaughan, coi fedeli Double Trouble, è il primo musicista senza un contratto discografico a essere assoldato.

Ma la porta sembra chiudersi pesantemente in faccia al nostro: come per Bob Dylan a Newport tanti anni prima, il tenore elettrico e furibondo della band non piace ai puristi del jazz e Stevie e soci vengono contestati a scena aperta. Pare la fine e un mesto ritorno ad Austin li attende. Ma in quei giorni al festival ci sono due noti personaggi: Jackson Browne e David Bowie.

Bowie lo vuole nel suo album Let’s Dance, regalandogli un booster di popolarità, mentre Browne gli mette concretamente a disposizione i suoi studi. Texas Flood nasce infatti al Downtown Studio di Los Angeles, offerto gratuitamente a Stevie e soci da Jackson.

Il primo album del chitarrista e dei suoi Double Trouble è registrato in meno di una settimana ed esce per la Epic. I brani vengono incisi alla vecchia maniera, praticamente senza sovraincinsioni, come fossero live.

“Pensavamo di incidere un buon demo che qualche casa discografica avrebbe potuto ascoltare. – ricorderà il batterista Chris Layton – E invece stavamo registrando il nostro primo album.”

Quanto all’esperienza in studio, giova ricordare le parole di Tommy Shannon, bassista all’epoca già molto esperto: “Fu tutto molto naif; ci sedemmo in cerchio e suonammo come sapevamo, guardandoci l’un l’altro, come se stessimo suonando dal vivo.”

Texas Flood è un lavoro estremamente compatto, lungo poco meno di quaranta minuti. Dieci canzoni, di cui tre cover, in cui Stevie Ray Vaughan – protagonista assoluto – lascia libera la sua Fender Stratocaster. La chitarra vaga per tutti i possibili territori blues, sciorinando frasi che ripropongono i suoni di Albert King, Buddy Guy e Otis Rush, incrociati col furore e le distorsioni di Jimi Hendrix.

Il tutto è però filtrato dallo stile e dalla personalità del chitarrista texano che, nonostante le pesanti influenze, riesca a sintetizzare un suono assolutamente personale e inconfondibile. Oggi il sound di Vaughan è stato cannibalizzato, smontato pezzo per pezzo e ricostruito da legioni di imitatori, ma all’epoca era un qualcosa di estremamente inconsueto.

Senza dimenticare la potenza e l’abilità di vocalist di Stevie, spesso sottovalutata. Il roco grido del texano è quello di uno shouter blues da manuale, tanto che il grande John Lee Hooker si spinse a ritenerlo una delle migliori voci del genere.

Ma andiamo ad ascoltare Texas Flood e vediamo come suona dopo trentanove anni.
L’apertura è per Love Struck Baby, velocissimo e grezzo boogie da battaglia. Sembra di essere in una bettola di Austin e la sensazione che da un momento all’altro entri in scena un Chuck Norris qualsiasi, magari sfondando la vetrata, è forte. Al di là del tenore alcolico e rude del brano, si tratta di una vera palestra per la Fender del protagonista.

Poco più di due minuti bastano per un primo, lungo e devastante assolo in cui la sei corde sciorina frasi velocissime, senza abbandonare mai la comfort zone delle scale pentatoniche.

L’intro della successiva Pride and Joy è ormai diventata iconica, vera croce e delizia di qualsiasi principiante della chitarra blues. Siamo stavolta dalle parti del più classico shuffle texano, con una parte ritmica da manuale. Anni dopo, al top del successo, Stevie Ray registrerà una memorabile versione per sola chitarra a dodici corde per l’MTV Unplugged, una vera perla per gli amanti del genere. Nulla da dire, il brano è un cavallo di battaglia immortale e il lavoro alla sei corde sfiora il parossismo, tanti sono i virtuosismi.

A chiudere un tris d’attacco killer, arriva la title track Texas Flood.
Il brano non è altro che una cover del misconosciuto Larry Davis che subisce il tipico trattamento alla Stevie Ray Vaughan. Ovvero una potente iniezione di vitamine, sotto forma di distorsione e bending esagerati, con le corde della Strato tirate fino al punto di rottura. Il pezzo è un semplice slow blues in tonalità maggiore, base ideale per l’incredibile lavoro di Stevie Ray.

Ogni nota di Texas Flood sarà suonata mille e più volte dai suoi tanti epigoni, ma la versione di Vaughan resta irraggiungibile. Probabilmente, con altri due o tre brani, siamo davanti alla summa della perfezione chitarristica del nostro.

La prima facciata di Texas Flood si chiude con Tell Me, rutilante shuffle standard di Howlin’ Wolf, con un’ottima prestazione vocale, e Testify. Quest’ultimo è un brano strumentale, un altro classico che sarà terreno di studio per tutti i giovani bluesman a venire. La chitarra di Stevie Ray viaggia a velocità supersonica, con un suono rotondo ed hendrixiano, inventando alcuni di quelli che diventeranno veri e propri cliché del genere.

Stesse atmosfere e velocità anche superiori per Rude Mood, vertiginoso strumentale che inaugura il secondo lato. Il brano parte come una versione supersonica degli strumentali di Freddie King, per poi involarsi verso inusitati lidi jazz.

Si prosegue con Mary Had a Little Lamb, standard tratto stavolta dal repertorio dell’idolo Buddy Guy. In questo caso la prestazione del bandleader è più misurata, con la Fender che passa in scioltezza dalla ritmica alla solista, come forse solo Hendrix aveva fatto fino ad allora. Il brano è forse il più equilibrato dell’intera raccolta, con la bella voce meno ringhiante e una celebre e riuscitissima parte di chitarra.

Dirty Pool è il vero lento del disco, uno slow blues di impianto classico e in tonalità minore. Il brano prende ispirazione dalla famosa Double Trouble di Otis Rush, pezzo che dà anche il nome al moniker della band. Stevie Ray suona la Strato quasi come fosse un mandolino, inserendo qua e là dei fill di chitarra da brivido.

Nell’album successivo, Couldn’t Stand the Weather, ci sarà spazio per una versione perfezionata di queste atmosfere, quella Tin Pan Alley assurta a capolavoro slow blues di Stevie Ray Vaughan.

La seguente I’m Crying è l’unico mezzo passo falso della raccolta; non tanto per la qualità dell’esecuzione, ma perché davvero troppo simile all’iniziale Pride and Joy.

Texas Flood si chiude con Lenny, brano strumentale dedicato a Lenora Bailey, moglie di Stevie Ray, detta proprio Lenny. Il brano si muove su soffuse linee jazz e melodiche, vero ponte immaginario tra il Jimi Hendrix di Third Stone From the Sun e la fusion.

Si chiude così un album omogeneo e perfetto nel suo genere; l’unico vero difetto è quello che accompagnerà il texano per tutta la breve avventura terrena, ovvero la non grande capacità di composizione nei pezzi originali. Un difetto tutto sommato perdonabile, considerando l’importanza di strumentista di Stevie.

Stevie Ray Vaughan entra subito nel gotha dei chitarristi anni Ottanta; Texas Flood vende benissimo – oltre 500mila copie, cifra impensabile per un album blues – e viene candidato a vari Grammy. La gavetta è finita e il chitarrista corona finalmente i suoi sogni: diventare una rockstar e riportare in auge il blues.

La carriera di Vaughan, purtroppo, sarà breve e tragica quanto quella del suo idolo Jimi Hendrix. Prima una serie di guai con la tossicodipendenza, poi l’incidente in elicottero quando era da poco tornato in piena forma.
Noi però vogliamo ricordarlo col furore della prima volta, quello di Texas Flood, uno degli album imprescindibili per qualsiasi appassionato di chitarra blues.

— Onda Musicale

Tags: Stevie Ray Vaughan, Jimi Hendrix, Mick Jagger
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