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REM, con “Automatic For the People” la band firma il suo capolavoro

I REM negli anni 90

Nell’ottobre del 1992 esce Automatic For the People dei REM, probabilmente l’album migliore della band di Athens. Un miracolo di equilibrio tra il passato di rivoluzionari dell’indie-rock e un presente di pop-star.

Athens è una cittadina di poco più di quarantamila abitanti quando, nel 1979, i futuri REM si riuniscono per strimpellare un po’ di rock. Un po’ come nella classica iconografia rock, Michael Stipe e Peter Buck si conoscono in un negozio di dischi. I due giovani scoprono di avere gusti musicali affini e che uno canta, Michael, ovviamente, mentre l’altro suona la chitarra.

In breve, si aggiungono Mike Mills e Bill Berry, basso e batteria; la formazione che spedirà i REM diritti nella leggenda del rock è già pronta. Nonostante i quattro provino assieme in garage già da un po’, la data di formazione vera e propria è il 5 aprile del 1980. Quel giorno, col moniker di Twisted Kites, i giovani suonano in pubblico per la prima volta alla festa di compleanno di Kathleen O’Brien, fidanzata di Buck.

L’ingaggio non è altisonante e il nome della band non è un granché, ma le cose cambieranno in fretta. Il complesso suona una serie di cover rock e garage: tutti si rendono conto che i ragazzi ci sanno fare. Se ne accorgono anche loro e decidono di fare sul serio, a partire dal nome: REM pare decisamente meglio di Twisted Kites.

Rapid Eye Movement, ecco la semplice spiegazione dell’acronimo che dà il nome al gruppo. La fase REM del sonno, quella in cui si sogna, che tutti conosciamo.

I REM iniziano a suonare nei locali di Athens e dintorni, dove sono attivi anche altri gruppi, come i B-52s, di cui i nostri si ricorderanno ai tempi dei primi successi. La loro musica è palesemente fuori moda: troppe chitarre per i suoni edulcorati che in quel periodo monopolizzano le radio Usa.

Eppure, quella dei REM sarà una rivoluzione che farà poche vittime; nonostante il loro successo sempre crescente e il progressivo abbandono degli stilemi dell’indie garage, riescono nel miracolo di salvare capra e cavoli. Ovvero, di guadagnare non solo l’airplay radiofonico, ma di ottenere un successo milionario senza troppo inimicarsi la scena indipendente.

Si sa che in questi casi a chi fa tanta gavetta difficilmente viene perdonato il successo, ma per i REM non va così. Fortunatamente.

Dal culto per pochi di Murmur e Reckoning si passa ai primi successi di Document e Green, per arrivare al trionfo di Out of Time. L’album di Losing My Religion, per capirci. I REM si trovano a quel punto a un bivio. La Warner Bros vorrebbe convincersi e convincerli di aver trovato gli U2 americani, una macchina da soldi capace di sfornare singoli milionari.

I ragazzi di Athens, invece, vorrebbero continuare a suonare quella musica che solo incidentalmente è arrivata al successo planetario. Michael Stipe è quello che forse assorbe peggio il colpo del successo improvviso. Il cantante è irriconoscibile anche fisicamente: capelli corti, magrissimo, quasi emaciato. Il fatto che sia risaputamente gay, a quei tempi, fa sì che i benpensanti facciano subito due più due; si inizia a diffondere la voce che Stipe sia sieropositivo e in fin di vita. Lui smentirà solo anni dopo, quando ci avranno già pensato i fatti.

In quest’atmosfera di grande attesa, i REM licenziano a fine ’92 Automatic For the People, un disco che fa di tutto – o quasi – per riuscire indigesto alle classifiche e al successo. C’è tutto, dall’enigmatica copertina in bianco e nero al cupo singolo scelto per il lancio, Drive.
Eppure, se quello è l’intento della band, fallisce completamente.

Automatic For the People è infatti un successo da 18 milioni di copie, anche se negli Usa vende meno del precedente. Non solo, l’album è di una qualità tale da guadagnarsi istantaneamente i galloni di classico.

Il titolo, interpretato inizialmente come una critica al sistema del mainstream che cerca di standardizzarli, cela una motivazione molto più semplice. Quando erano ancora quattro sconosciuti di Athens, i REM andavano spesso da Weaver D’s Delicious Fine Food, una tavola calda della città. Automatic For the People era il bizzarro slogan del posto. 

L’enigmatica copertina di cui dicevamo, mostra una sorta di stella che faceva parte dell’insegna del Sinbad Hotel di Miami, vicino ai Criteria Studios, dove viene registrato gran parte dell’album. Il disco trasforma definitivamente il suono elettrico dei primi REM in quello spesso e volentieri acustico e incline alla ballata. I temi non sono certo leggeri come ci si aspetterebbe da un disco d’alta classifica.

Anzi, protagonista di molti brani è la morte, declinata in vari modi. I testi sono – come capita spesso con Stipe – criptici, densi di citazioni cinematografiche e di j’accuse verso i nemici di sempre; maccartisti, omofobi, repubblicani e benpensanti, nessuno esce indenne dalle parole di Stipe.

L’attacco di Drive è da antologia.
Un semplice arpeggio di chitarra acustica, di quelli che pensi di aver sentito mille volte nel folk e invece ti manda al tappeto. Qualche secondo e irrompe la voce di Michael Stipe, granitica, filtrata da un effetto eco e con lo strascicato accento della Georgia. Un brano che diventa subito leggenda.

Il testo pare un’esortazione ai giovani a non farsi manipolare da politica e sistema. Il tono del brano è oscuro e cupo, non c’è un vero ritornello e il videoclip che l’accompagna diventa altrettanto iconico. Il corto ritrae il cantante che fa stage-diving sul pubblico, in un suggestivo rallentatore bianco e nero quasi espressionista. La metafora è forse quella del passaggio tra band di provincia a rockstar, ma coi REM è sempre difficile essere sicuri di aver capito bene.

Una bellissima parte di chitarra elettrica, suonata con una moneta e sovraincisa sei volte, finisce per essere uno dei migliori passaggi elettrici dei REM. Gli archi, come in altri tre brani, sono arrangiati da John Paul Jones, leggenda vivente dei Led Zeppelin.

A un attacco così tenebroso segue Try Not to Breathe, altro pezzo non certo leggero, che tratta la dipartita di un anziano. Musicalmente l’atmosfera è un po’ più distesa, con toni quasi da ballata country e cori in falsetto. Un altro brano che è diventato un classico.

The Sidewinter Sleeps Tonigth è il momento più festoso del disco; un po’ come era per Shiny Happy People nel lavoro precedente. L’ispirazione per nulla nascosta è la celebre The Lion Sleeps Tonight dei Tokens degli anni ’60. L’omaggio è a tal punto palese che la band ne acquisisce i diritti e ne registra una cover come lato B del singolo.

Di seguito arriva un altro dei pezzi forti dell’album, nonché classico indiscusso del complesso di Athens, Everybody Hurts. La ballata è ad alto rischio di melensaggine, tanto che inizialmente il ritmo terzinato della canzone riesce indigesto agli stessi REM. I quattro riescono però a trovare la chiave giusta e il brano diventa leggendario, anche grazie al video. Le immagini sono ispirate a 8 e ½ di Fellini e affidate alla regia di Jake Scott, figlio del celebre Ridley.

Il testo si contrappone al pessimismo che aleggia in tutto il disco, tanto da suonare – senza giri di parole – come un invito a non mollare (Hold on). Anzi, una vera e propria esortazione a ricacciare indietro ansie suicide.

When you think you’ve had too much
Of this life to hang on
Well, everybody hurts sometimes

Everybody cries
Everybody hurts, sometimes

La voce di Stipe – ma anche la sua prestazione attoriale nel video – è da brividi, un vero capolavoro di pathos. Un brano dalla semplicità cristallina, eppure un capolavoro.

New Orleans Instrumental No. 1 è uno strumentale breve e spettrale che serve un po’ a tirare il fiato. Sweetness Follow è un po’ la controparte di Try Not to Breathe, parlando della morte dei genitori. Un altro pezzo perfettamente inserito nell’economia dell’album, con un robusto violoncello e l’organo che suona quasi funereo. Un altro momento di grande pathos.

Monty Got A Raw Deal è invece dedicata a Montgomery Clift, grande attore degli anni Cinquanta. Ossessionato dalla privacy e dalla propria omosessualità, Clift vive le gioie del successo e una vita tragica. Un grave incidente ne pregiudica l’aspetto, l’ostracismo per le sue scelte personali ne mina la psiche. Caduto preda delle dipendenze, Clift muore per cause naturali dopo anni di declino, tanto che il suo viene definito il suicidio più lungo della storia.

Il brano ha la forma della ballata sospesa tra folk e pop e Stipe sfoggia una delle sue interpretazioni più sentite.

Ignoreland è il momento più energico del disco, una invettiva contro l’America repubblicana e conservatrice di Reagan e Bush. Il pezzo finisce per essere l’unico che suona un po’ avulso, quasi sguaiato per certi versi, rispetto al resto.

Star Me Kitten – che inizialmente doveva intitolarsi Fuck Me Kitten – è un’altra ballata d’atmosfera, che però non aggiunge nulla di particolare all’album. Ben diverso il peso specifico di Man On The Moon, un altro dei pezzi pregiati del lavoro.

Il brano è l’ultimo a essere registrato, nonostante la parte musicale fosse molto amata dai REM. Stipe, dopo vari tentativi, butta giù un testo che è un tributo alla figura di culto di Andy Kaufman, comico dalla storia tragica. La parte in cui Michael imita la voce di Elvis Presley è un doppio omaggio; infatti, l’imitazione di Elvis era a sua volta un cavallo di battaglia di Kaufman.

In Man On The Moon tutto è leggenda, dal testo misterioso al ritornello magistrale, forse il più bello dell’intero canzoniere dei REM.

Altro piccolo capolavoro è Nightswimming, vero inno alla nostalgia di quando i quattro erano solo dei ragazzi sconosciuti di Athens. Nelle roventi notti d’estate, dopo i concerti, i giovani usavano andare a fare il bagno nel vicino lago. Ma la metafora è più generale:

Il brano parla dell’estate come se fosse l’eternità, di quel tipo di innocenza e di come ci si aggrappa a qualcosa che è inevitabilmente perduto. Ci sono elementi autobiografici, certo, ma la maggior parte è frutto della mia fantasia.”

Michael Stipe

Mike Mills suona nel brano il pianoforte dei Criteria Studios, lo stesso che Jim Gordon suona nella celeberrima Layla.

Per un disco a tratti cupo e sepolcrale si impone una chiusura in tema.
Find the River lo è, essendo una sorta di requiem per John Seawright, poeta di Athens scomparso in quel periodo. La canzone è magicamente sospesa tra country e pop, con richiami allo stile di Fred Neil e una ficcante fisarmonica.

La ricerca del fiume a cui allude il titolo è l’ultima metafora esistenziale del disco, che si chiude come meglio non potrebbe.

Automatic For the People è una scommessa vinta, per i REM. Un lavoro che dimostra come la band di Athens possa vendere milioni di dischi senza vendere l’anima al mercato. Al disco seguiranno quasi vent’anni di carriera, fino allo scioglimento del 2011; anni in cui i REM portano avanti il loro credo, senza mai uno scivolone di troppo.
E non è poco.

— Onda Musicale

Tags: REM, John Paul Jones, Michael Stipe
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