In primo pianoMusica

Joy Division e “Unknown Pleasures”, la disperazione di Ian Curtis

Joy Division e Ian Curtis

Ci sono storie del rock che è difficile raccontare e ci sono dischi che è difficile perfino ascoltare. Album iconici che sono entrati nella leggenda facendo pagare ai protagonisti un prezzo altissimo. Questa è la storia di Unknown Pleasures, il primo disco dei Joy Division.

L’area della Grande Manchester non è esattamente un posto solare, specie se ci muoviamo a Salford, negli anni del punk. È il 1976, nella cittadina, e tre ragazzi decidono di seguire le orme dei loro nuovi idoli, i Sex Pistols. Dall’incontro con la luce oscura di Ian Curtis, nascono i Joy Division.

Andiamo con ordine. I tre ragazzi sono Bernard Sumner, Peter Hook e Terry Mason, e si sono conosciuti sui banchi della Salford Grammar School. Bernard suona la chitarra, Peter il basso e Terry la batteria. La scintilla che li fa mettere assieme scocca il 20 luglio del 1976, quando i tre assistono alla Lesser Free Trade Hall di Manchester a un infuocato live.

Sul palco ci sono i Sex Pistols e la band di casa, i Buzzcocks.
I tre decidono di imbracciare gli strumenti e imitare i loro idoli. Non hanno ancora le idee chiare e la tecnica è zoppicante, ma l’avvento del punk rende meno importanti queste caratteristiche e non li invoglia certo a desistere. Il 9 dicembre del 1976 all’Electric Circus di Manchester, i tre sono già sul palco con lo strambo nome di Stiffen Kittens.

Per compiere il destino dei Joy Division, però, manca ancora un tassello, il più importante.
Manca un cantante e – convinti al primo provino – i tre assoldano Ian Curtis. Il ragazzo ha vent’anni ed è un cantante dotato di non grande tecnica ma di un timbro assai peculiare. Scrive poesie ed è affascinato dalla letteratura decadente, dal punk, da Jim Morrison e – soprattutto – da David Bowie.

Ian lavora nel servizio civile di Manchester e porta la sua sensibilità nel complesso. Non tutto è però rose e fiori; Curtis, infatti, soffre di una pesante forma di epilessia fotosensibile che lo tortura sempre più. Un po’ il disturbo, un po’ l’indole tormentata e in parte un matrimonio precoce – con Deborah Woodruff – e non troppo felice, lo hanno già fatto precipitare nella depressione.

Il primo contributo di Ian Curtis alla band è quella di fargli cambiare nome: via gli Stiffen Kittens, arrivano i Warsaw. Il moniker è ispirato a un pezzo dell’idolo Bowie, lo strumentale Warszawa, contenuto in Low. Mason abbandona quasi subito i tamburi per diventare manager del gruppo, sostituito inizialmente da Tony Tabac.

Il quartetto inizia a esibirsi e a registrare qualche demo, mettendo a punto un sound che per l’epoca è quasi rivoluzionario. Il punk di lì a poco sarà alla fine della sua breve stagione e il suono dei quattro ragazzi di Manchester detterà le coordinate del post-punk e della New Wave britannica.

La parte strumentale è sempre in perfetto equilibrio tra i vari musicisti che, pur essendo lontanissimi dal virtuosismo, sono perfettamente funzionali allo stile. Il suono è compatto, geometrico, roccioso. I temi e le atmosfere sono di una cupezza quasi opprimente; la voce di Curtis, baritonale e volte dissonante, sembra uscire diritta da un sepolcro.

La disperazione di Ian Curtis, reale e ben tangibile, non sfocia mai nel pietismo e nel melodramma. Anzi, l’approccio è talmente freddo e distante da far gelare il sangue. La musica dei Joy Division, allora ancora Warsaw, non è di facile ascolto. Nel loro caso, come forse mai prima, si può ben dire che o li si ama o li si odia, tanto è pesante il fardello di cui è costretto a farsi carico l’ascoltatore.

Nessuno come loro, e come Curtis in particolare, è però mai stato in grado di mettere a nudo la sofferenza in formato rock.

All’inizio del 1978, i Warsaw sono ormai popolari nell’underground inglese, e si ripresenta il problema del nome. C’è infatti un’altra band che si chiama Warsaw Pakt: per evitare confusione, Curtis propone Joy Division. Il nome deriva dai bordelli presenti nei lager nazisti, dove le prigioniere erano costrette a prostituirsi. Ian ha letto la loro storia nel libro La Casa delle Bambole, di Yehiel Feiner.

La scelta è piuttosto ingenua.
Il moniker, i temi oscuri, il modo di vestirsi: tutto pare fatto apposta per scatenare polemiche su presunte simpatie naziste. Si tratta di argomenti pretestuosi e ridicoli, basterebbe ascoltare i loro testi per capirlo, ma il marchio rimane loro appiccicato per un bel po’. In ogni caso, col nome Joy Division e in virtù dell’interesse delle riviste e di un concerto al Marquee coi Cure, la band è sempre più popolare.

Nell’aprile del 1979, con la formazione assestata con Stephen Morris alla batteria, i Joy Division iniziano le registrazioni del loro primo album, Unknown Pleasures. Il disco viene registrato in poco più di due settimane agli Strawberry Studios di Stockpor e pubblicato il 15 giugno del 1979. Le session sono molto stressanti, sia perché i ragazzi sono nuovi alle tecniche di studio, sia per la produzione di Martin Hannett, tecnico capace quanto autoritario.

Martin ha le idee molto chiare, sicuramente più dei Joy Division. Il suo lavoro, fatto di una perizia tecnica maniacale, è volto a rendere il sound cupo e gelido. Il risultato è piuttosto diverso da quello che la band ha in mente, e il solo Ian Curtis alla fine ne è pienamente soddisfatto.

“Per me era una vera novità. Non avevamo effettuato molte registrazioni prima di allora, c’era molta eccitazione. Ed era anche molto piacevole, perché era la prima volta che registravamo intenzionalmente. Devo dire che fu molto divertente, anche se personalmente non ero d’accordo con il produttore Martin Hannett riguardo al missaggio dei brani. Volevo fossero più rock, più duri e pesanti. Martin invece li aveva resi sognanti, eterei. Ero un po’ arrabbiato all’epoca, ma col tempo ho capito che Martin Hannett era stato assolutamente corretto. È il lavoro di Martin che ha permesso a quel disco di durare per sempre.” Dichiarerà Peter Hook trent’anni dopo.

La copertina è un vero asso nella manica del lavoro.
L’immagine viene realizzata dal grafico della Factory Records, Peter Saville, che si basa su un’immagine selezionata dal batterista Stephen Morris. Il grafico, tratto dal libro The Cambridge Encyclopedia of Astronomy, rappresenta una serie di onde elettromagnetiche prodotte dalla pulsar PSR B1919+21, cioè la prima pulsar mai scoperta. Saville inverte i colori dell’immagine, dal nero su bianco al bianco su nero.

Un colpo di genio forse inconsapevole, che oggi è finito su decine di magliette e nell’immaginario della storia del rock e non solo.

Il disco si apre con un pezzo che è un vero manifesto, Disorder.
La batteria è talmente compressa da sembrare elettronica, il basso pulsa impazzito ad alta velocità e la chitarra traccia un riff geometrico. La voce di Curtis è decisa e risoluta, esageratamente in primo piano, a suggerire una vicinanza inquietante e disturbata. La chitarra si avventura poi a tracciare una bella melodia, che rimane però sempre glaciale, anche a causa di effetti ambientali di sottofondo.

Un attacco che chiarisce subito le coordinate gotiche dell’album. All’epoca, un vero e proprio schiaffo per gli ascoltatori abituati ai toni sguaiati ma caldi del punk.

Day of the Lords è ancora più cupa e pesante.
Lenta e dall’incedere maestoso, la canzone propone una chitarra che quasi pare raschiare il fondo dell’anima. La voce di Curtis, bassa e tombale, pare venire dal fondo di un pozzo; le sue imprecisioni nel canto non fanno altro che sottolineare il suo stato emotivo disturbato e sempre al limite della rottura.

Quando, nel finale, Ian forza andando un po’ sopra le righe, l’effetto è davvero devastante.

Il ritornello è meraviglioso e allo stesso tempo agghiacciante. Il vero ingresso nel mondo gotico e dark dei Joy Division, un mondo riservato agli iniziati del loro culto deviato.

Si prosegue con la nenia stonata di Candidate, in cui la voce di Curtis è quantomai nuda e dolente, sostenuta da una ritmica che si trascina disperata. Insight prosegue sulla stessa falsariga, a parte un break centrale con effetti quasi da fantascienza, e apre a uno dei capolavori del disco.

New Dawn Fades è di nuovo un pezzo dall’incedere lento e maestoso, inizialmente guidato da batteria e basso. All’improvviso entra la chitarra, lievemente distorta, a tracciare due riff epocali, suonati sulle corde basse e poi su un’ottava più alta. Sono poche note, semplici e tipiche del sound Joy Division; poche note capaci di lacerare l’anima dell’ascoltatore più sensibile.

La voce di Ian Curtis suona per una volta più delicata, quasi sussurrante.
Le parole, come sempre, sono di amaro malessere, col cantante che non fa nulla per nascondere il suo stato patologico. Ian sale di tono, si arrampica sulle note, sempre con quel suo distacco disperato. L’urlo del ritornello – con la voce pesantemente filtrata e dissonante – pare arrivare da un altro mondo.

Curtis non fa nulla per nascondere il suo dolore, ma non lo fa invocando aiuto. No, la sua è una disperazione senza rimedio, vista quasi freddamente dal cantante. E che sarà spietatamente confermata dal destino di Ian di lì a poco.

Si passa a un altro pezzo entrato nel mito, She’s Lost Control.
La canzone narra di un’amica di Ian, afflitta dallo stesso male, l’epilessia, e morta in seguito alla malattia. L’ossessionante riff, tracciato dal basso, fa da sfondo alla voce trattata del cantante, mentre la chitarra si muove su angolosi accordi più canonicamente rock del solito.

Shadowplay, dopo un’introduzione piuttosto scarna del basso, si muove in modo più dinamico e sostenuto del solito. La chitarra si ritaglia una parte solista leggermente più lunga e vibrante degli altri pezzi, mentre la performance di Curtis è quasi rabbiosa. Wilderness ha un andamento saltellante e discontinuo, mentre la successiva Interzone, è forse il passaggio più tradizionalmente rock del disco.

La voce di Peter Hook – a cui Curtis fa il controcanto – contribuisce ad alleggerire l’atmosfera. L’andamento sostenuto, i fill di chitarra e la ritmica battente fanno associare il brano ai Clash se non addirittura all’hard rock.

Siamo alla chiusura di Unknown Pleasures, un disco da cui si esce provati emotivamente.
I Remember Nothing non fa nulla per alleggerire il carico, anzi. L’incedere si fa di nuovo lento e ancora più cupo, la chitarra ringhia come un mostro annidato nell’oscurità e il basso batte come un maglio. Gli effetti ambientali – bottiglie rotte e infrangersi di oggetti – tengono alta la tensione. E così la voce distorta di Ian Curtis.

Si esce dall’ascolto del disco stremati, ma consapevoli di essere passati attraverso un rito d’iniziazione necessario e irripetibile. All’epoca, nonostante sia una vera rivoluzione, ha un insperato successo che frutta un lungo tour coi Buzzcocks. Unknown Pleasures è la prima testimonianza della disperazione di Ian Curtis. Un sentimento talmente profondo da far sprofondare il cantante e i suoi demoni sempre più in basso.

Il successivo, bellissimo Closer uscirà il 18 luglio del 1980.
Esattamente due mesi prima Ian Curtis si è arreso al suo malessere, impiccandosi a una rastrelliera nella cucina di casa sua, al 77 di Barton Street a Macclesfield.

— Onda Musicale

Tags: David Bowie, Joy Division
Sponsorizzato
Leggi anche
Guest (Rock) stars, frammenti di musica e cinema: Sting
Jimmi JDKA e il suo nuovo singolo “Just Watch”