Nel 1974 il rock progressivo inizia ad affrontare una veloce quanto letale decadenza. Le grandi band hanno già dato il meglio e forse solo i Genesis escono con un lavoro che si può definire un capolavoro. Eppure, quello stesso anno, i Camel con Mirage sono appena al loro secondo disco.
Sì, perché i Camel sono una delle più grandi band progressive degli anni Settanta, ma sono arrivati sulla scena con un certo ritardo. Non solo, il loro nome è legato da sempre a una serie di fatti bizzarri. Tanto per cominciare, i Camel sono tra i più grandi nomi della scena di Canterbury. Peccato che la band venga da Guildford, sud di Londra, e che anche musicalmente non sia proprio votata al prog gentile della corrente citata.
La scena di Canterbury è infatti l’ala delicata del prog; nei dischi di Caravan – la band a cui i Camel sono più spesso associati – e Soft Machine, infatti, sono quasi del tutto assenti gli elementi hard del prog tradizionale. Il folk e il jazz sono le influenze più grandi, mentre i temi fantasy sostituiscono quelli più duri di molti gruppi coevi. I Camel sono quindi – in un certo senso – una band apocrifa del genere.
La loro musica ricorda i Caravan, ma sfoggia anche qualche accelerazione hard simile ai Deep Purple e mastica poco il jazz.
Il complesso nasce nel 1971, ma ha radici lontane. Bisogna addirittura risalire al 1964 per trovare le radici dei Camel; in quell’anno un giovanissimo Andy Latimer – appena quindicenne – assieme al fratello e ad altri musicisti adolescenti, fondava i The Phantom Four.
Passando attraverso una serie di cambi di formazione e di nome – Strange Brew, Brew e alla fine Camel – la band arriva nel 1971 con Latimer alla chitarra, Doug Ferguson al basso e Andy Ward alla batteria; è allora che i tre – pubblicando un annuncio su Melody Maker – fanno il salto di qualità aggiungendo in formazione l’esperto tastierista Peter Bardens. Il musicista è titolare di collaborazioni pressoché infinite e di due album a proprio nome.

La line up è così completa, con quattro strumentisti di prim’ordine, navigati nonostante la giovane età, e col valore aggiunto di potersi alternare tutti alla voce. Non è tutto; Doug Ferguson è anche un abile manager e riesce a trovare anche una possibilità alla MCA per incidere finalmente il primo lavoro.
L’esordio porta il nome della band ed è una piccola gemma sottovalutata del genere, che mescola i cliché del genere riuscendo a rimanere nell’ambito di una salvifica leggerezza. Purtroppo, il lavoro vende pochissimo, tanto che la MCA liquida subito i quattro ragazzi. Si chiude una porta, si apre un portone, si suole dire; è così per i Camel che riescono ad accasarsi alla Deram, etichetta principe del rock progressivo.
Sono tempi in cui le cose vanno piuttosto rapidamente e, mentre il primo disco è ancora caldo, a fine ’73 i Camel sono già in studio per registrare il seguito. Il lavoro esce il 1° marzo del 1974, prodotto da David Hitchcock e con alcune novità. La più succosa è sicuramente quella che vede Andrew Latimer cimentarsi col flauto. Il chitarrista è talmente bravo che a molti viene da chiedersi perché non si fosse dedicato prima allo strumento.
Mirage è poi un album maggiormente improntato ai canoni del prog. La tracklist offre due minisuite di nove e dodici minuti. La copertina, poi, è diventata talmente iconica che forse si è parlato del disco più per la grafica che per l’eccezionale musica. L’artwork non è nulla di troppo complesso, in verità, un semplice cammello (che poi sarebbe un dromedario) distorto da un miraggio. Quello che fa discutere è come tutto sia ricalcato sulla grafica delle omonime sigarette.
Lo scherzo costa caro negli Stati Uniti, dove per motivi di copyright e di opportunità la parte grafica viene sostituita con un lavoro più anonimo. In Europa la faccenda assume contorni bizzarri. Infatti, dopo un’iniziale controversia, il colosso del tabacco si rende conto che la pubblicità occulta funziona e salta dall’altra parte della barricata. I Camel vengono a quel punto finanziati e l’accordo dura fino a quando le pretese dei tabaccai diventano assurde, spingendosi a pretendere di cambiare alcuni titoli e che i musicisti incoraggino al fumo.

Al di là di queste curiosità, Mirage vende molto meglio del precedente, anche se in patria non sfonda. Molto meglio nella West Coast americana, dove il suono rilassato fa maggiori proseliti.
L’attacco del disco è con Freefall, un pezzo che fa subito capire come il suono dei Camel sia abbastanza atipico per la scena di Canterbury. Il brano – introdotto da effetti ambientali – è una vera e propria scudisciata di hard-prog. La canzone vanta un ritmo sostenuto e fa da sfondo per la voce di Bardens e per le evoluzioni chitarristiche di Latimer.
Un break centrale strizza vagamente l’occhio a una sorta di jazz psichedelico. Subito salta all’orecchio l’incredibile abilità strumentale dei quattro musicisti, con un basso indiavolato e un gran lavoro di batteria.
Si prosegue coi ritmi rilassati di Supertwister, pezzo dedicato ai colleghi danesi Supersister. L’introduzione di flauto è delicata, ma il tono sale subito con un ritmo incalzante. Come da repertorio prog, si susseguono cambi di ritmo e melodia, sempre guidati dal flauto ma con grande spazio per ogni strumento.
Le tastiere di Bardens sembrano a tratti quasi citare i Doors, mentre le melodie tracciate dal flauto sono sempre suadenti. Uno strumentale che è un piccolo capolavoro di misura.
Si va avanti con la prima minisuite, dedicata al Signore degli Anelli e divisa in tre movimenti. I primi due – Nimrodel e The Procession – sono invero piuttosto brevi e suggestivi e fanno da introduzione a The White Rider. L’ultima parte, di quasi sette minuti, inizia con un meraviglioso tema di chitarra elettrica, una melodia quasi morriconiana.
La parte vocale ricorda molto certi passaggi dei Caravan ed è ancora all’insegna di una bella melodia. Presto iniziano i cambi di ritmo e i colpi di scena. Bardens si prende le luci con l’organo e poi con una cavalcata di moog. La chitarra raccoglie il testimone e continua fino a far scivolare il pezzo di nuovo i toni sulla ballata, con la voce suadente di Latimer. La chiusura, più cupa e psichedelica, si avvale di una bella parte di chitarra slide.
Nove minuti di suite che vanno via lisci, senza alcun intoppo e senza far rimpiangere i nomi più blasonati del genere.
Si gira il vinile e riprendono i venti tempestosi del deserto. Effetti ambientali che annunciano un altro strumentale, Earthrise. L’attacco fa ancora pensare alle colonne sonore western di Morricone, poi il tema cambia e – guidato dal sintetizzatore – si fa più leggero. Dopo un breve stacco di batteria si apre la parte centrale, con chitarre e tastiere a inseguirsi in modo indiavolato. Impossibile non pensare a Blackmore e Lord dei Deep Purple, e ai loro break di organo e chitarra.
Un lampeggio di sintetizzatori introduce l’ultima parte di Mirage, la suite Lady Fantasy.
Di nuovo la musica è divisa in tre movimenti, Encounter, Smiles For You e Lady Fantasy. La chitarra traccia di nuovo una melodia molto azzeccata, prima che Bardens inizi a declamare con piglio epico la parte cantata. La voce si alterna a ricami di tastiera che ancora fanno venire in mente i Doors.
Intorno al quarto minuto un cambio di ritmo improvviso lascia spazio a una lunga cavalcata di chitarra. Andrew Latimer è certamente un chitarrista poco celebrato, ma le sue qualità sono qui sotto gli occhi di tutti. I cambi di atmosfera, velocità e ritmo si alternano tra schiaffi e carezze per oltre dodici minuti. Il tutto, miracolosamente, senza cali di tensione.
Un’ultima ripresa del tema melodico e la suite – e con essa l’album – si avvia alla fine.
Mirage è un disco che dura meno di quaranta minuti, nonostante i brani piuttosto estesi. La brevità non è certo un difetto, in un disco che suona veramente come lo stato dell’arte del rock progressivo. La musica è infatti talmente pregna di contenuti e suggestioni che, probabilmente, una durata maggiore avrebbe rischiato di travolgere l’ascoltatore.
I Camel, con Mirage, si affermano tardivamente come maestri del prog; già l’anno successivo andranno nuovamente a segno con The Snow Goose, album totalmente strumentale che contende a Mirage lo status di capolavoro del gruppo. La storia del gruppo sarà ancora lunghissima, tanto da durare ancora, seppur col solo Latimer ancora in formazione.