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“Come Taste the Band”, i Deep Purple MK IV e la fine di una leggenda

Come Taste the Band, la copertina

Come Taste the Band esce il 10 ottobre del 1975 ed è il primo – e unico – disco della formazione MK IV dei Deep Purple. All’epoca in molti si chiedono se il lavoro segnerà l’ennesima rinascita della band.

E invece, Come Taste the Band, porterà allo scioglimento dei Deep Purple, almeno fino alla discussa reunion degli anni Ottanta. All’indomani di Stormbringer, il complesso per eccellenza dell’hard rock inglese, si trova di nuovo punto da capo. Come all’indomani dell’abbandono di Ian Gillan e di Roger Glover, di qualche tempo prima, si torna a parlare di scioglimento.

Stavolta è Ritchie Blackmore a farsi da parte, per modo di dire.
Il bizzoso quanto geniale chitarrista si vede messo in minoranza all’interno della band che considera una sua creatura. L’arrivo di David Coverdale e di Glenn Hughes, dopo un’iniziale ventata di freschezza, ha alterato gli equilibri interni. Troppo forte l’impronta funk che i due vorrebbero imprimere al suono roccioso che è il marchio di fabbrica del gruppo.

Jon Lord è passato dai leggendari duelli tastieristici con la chitarra di Ritchie a essere quasi un orpello; Blackmore, poi, non sopporta che il suono durissimo e slegato dal blues che tanta fatica gli è costato, debba inchinarsi alle inclinazioni funk degli ultimi arrivati. Messo in minoranza, il chitarrista sbatte il pugno e se ne va: già da un po’ ha pronto il rimpiazzo, i Rainbow.

Come accaduto nella precedente diaspora, però, i Deep Purple reduci non si danno per vinti e iniziano a considerare di sostituire la storica chitarra. In formazione, dai tempi della MK I, sono rimasti solo Jon Lord e Ian Paice, che paiono intenzionati a non affossare la gallina dalle uova d’oro. I nomi presi in considerazione sono tanti e molto diversi tra loro. Pochi però, sono quelli che arrivano a sostenere un provino.

A un certo punto il nome giusto pare quello di Clem Clempson, che sostiene un’ottima prova. Clem è un giovane veterano, ha suonato il blues con i Bakerloo, il jazz-rock coi Colosseum e qualcosa di più affine all’hard rock con gli Humble Pie. Per Lord, Clem suona benissimo, ma non scatta la giusta magia.

Quando la situazione sembra in stallo, David Coverdale si presenta una notte alla villa di Jon Lord. Il cantante tiene sottobraccio un disco di Billy Cobham, Spectrum, e insiste di aver trovato il chitarrista giusto. Il nome è quello di Tommy Bolin.

E qui entra in scena uno dei grandi what if, dei grandi rimpianti del rock.
Tommy Bolin è americano dello Iowa, Sioux City in particolare. Ha deciso di diventare un musicista nel modo più banale per un americano: dopo aver assistito a un concerto di Elvis Presley. In breve, il giovane inizia a suonare la chitarra e a sperimentare la solita trafila di band minori, fino agli Zephyr.

Una sera la band suona in un club di New York, dove è presente proprio Billy Cobham. Il grande batterista jazz rimane impressionato dal giovanissimo chitarrista: “He wasn’t playing many notes, he was playing the right notes!” afferma Billy. Ovvero, Bolin non suona tante note, ma suona quelle giuste.

Tommy viene quindi reclutato da Cobham e suona in Spectrum. Il discreto risalto garantito dal disco fa sì che Joe Walsh, quando abbandona i James Gang, raccomandi come sostituto proprio Bolin. L’affare è fatto e il chitarrista suona coi James Gang in un paio di dischi improntati al loro tipico sound americano.

Narra la leggenda che quando i Deep Purple contattano Tommy Bolin, il chitarrista li conosca a malapena. Ha ascoltato giusto Smoke on the Water e Hush e, quando la band gli fa recapitare i vecchi dischi, lui nemmeno apre il pacco. Tuttavia, nel momento in cui i Deep Purple e il chitarrista si trovano in studio per vedere se l’unione può funzionare, dopo quattro ore di jam il giudizio è unanime. I Deep Purple hanno trovato il nuovo chitarrista.

Come Taste the Band viene registrato tra il 3 agosto e il 1° settembre del 1975 a Monaco, nei Musicland Studios, sotto la fida produzione di Martin Birch. Bolin si cala subito nel gruppo, tanto che delle dieci canzoni, ben otto portano la sua firma di co-autore. Il suo stile è certo ben diverso da quello di Ritchie Blackmore, meno duro e pirotecnico, sicuramente lontano dalla velocità e dalle citazioni neoclassiche; quello di Tommy è un chitarrismo vicino al funk e alle scale blues, efficace e poco appariscente.

La copertina, non bellissima, come da tradizione, ritrae i componenti della band all’interno di un bicchiere di vino rosso. Il titolo pare alludere alla possibilità di assaggiare senza pregiudizi il nuovo gusto della band. A molti sembra quasi un mettere le mani avanti.

L’album si apre con Comin’ Home, annunciato da un riff di Bolin che già fa capire il cambiamento d’atmosfera. La sequenza di note, pur piacevole, si muove in territori ben differenti da quelli rocciosi, suonati spesso sulle corde basse, a cui ha sempre attinto Blackmore. Il ritmo è sostenuto e la voce di David Coverdale tiene però bene insieme la baracca e il pezzo risulta piacevole.

Tommy Bolin punteggia con ficcanti lick di chitarra slide, prima dell’assolo, introdotto da una parte molto effettata che forse vuole citare Blackmore. Il fantasma di Ritchie è ben presente, ma l’assolo prende subito una via più inerente a territori funk e blues. Come apertura, il pezzo risulta comunque buono, anche se non del tutto convincente.

Si prosegue con Lady Luck, breve cavalcata rock ancora affidata inizialmente alla voce di Coverdale. L’atmosfera è più affine ai Deep Purple classici, anche nel contagioso ritornello. L’assolo di Bolin è apprezzabile, anche se sembra più di essere in un album degli ZZ Top che in uno dei britannici. Intendiamoci, il sound non è assolutamente spiacevole, tuttavia l’innesto di un elemento americano fino al midollo non poteva avvenire senza qualche problema di coerenza interna.

Si passa a Gettin’ Tighter, pezzo che già dal riff si muove verso lidi funk, al limite del soul. La bella voce di Glenn Hughes stavolta la fa da padrona, con una prestazione ringhiante e piena di grinta. La sezione centrale è tutta appannaggio di un cambio di ritmo all’insegna del funk: forse davvero troppo da sopportare per i fan della prima ora. Il finale riprende il tema iniziale, con la chitarra di Bolin che sfodera un suono forse un po’ troppo sottile per i canoni del complesso.

La successiva Dealer è più centrata. La ritmica è granitica e così la voce di Coverdale; il pezzo pare quasi riecheggiare – anche nei temi – la celebre The Pusher degli Steppenwolf. Bolin ci dà dentro con la slide, fino a quando il ritmo rallenta lasciando spazio a una sorta di bridge molto più lento, cosa non avulsa dalle abitudini dei Deep Purple dei tempi d’oro.

C’è spazio per una lunga coda tutta riservata alla chitarra di Bolin, che però sembra suonare sempre lo stesso assolo. Il grande assente, un po’ come nei dischi della MK III, è Jon Lord, un tempo inestimabile valore aggiunto del gruppo. Ormai il suo contributo si limita a qualche svisata di piano e poco più.

La prima facciata si chiude con I Need Love, rocciosa ballata che però non aggiunge molto ai brani precedenti. Bolin punteggia la canzone con la slide, prima del solito intermezzo funk, onestamente poco digeribile.

Il secondo lato di Come Taste the Band si apre con Drifter, pezzo che si regge su un riff di chitarra finalmente abbastanza duro da soddisfare il palato dei fan. Coverdale, vera spina dorsale dei Deep Purple MK IV, fa il suo con grande mestiere, supportato dal riff che va avanti minaccioso per tutto il brano.

Tommy Bolin sembra più a suo agio con un ritmo un po’ più lento, sfoderando un assolo che si muove su fraseggi blues e che risulta tutto sommato efficace. La sezione centrale rallenta ancora il ritmo, che si fa soffuso, ma è onestamente troppo blanda per aggiungere qualcosa di decisivo.

Love Child è ancora segnata da un poderoso riff che ne costituisce l’ossatura.
Stavolta a cantare è Hughes, ma il pezzo risulta leggermente piatto, se non per la novità nella parte centrale di un assolo di sintetizzatore. Jon Lord è quindi presente e si fa sentire, ma lo fa forse nel modo peggiore, con un suono che fa rimpiangere ampiamente il suo vecchio, caro Hammond.

Si passa al momento peggiore dell’intera raccolta: This Time Around, che fa corpo unico con Owed To ‘G’. I toni sono soffusi, anticipando certe melense ballate anni Ottanta e suoni da radio americana tra Toto e Chicago; un vero colpo basso per i fedeli al suono selvaggio dei Deep Purple MK II. Certo, se Blackmore se ne era andato fiutando le avvisaglie di questo suono, come dargli torto?

La seconda parte del brano – Owed To ‘G’ – risolleva un po’ il tono. Anche se non si tratta certo di un capolavoro, la band suona estremamente compatta e – paradossalmente – Tommy Bolin sfoggia una delle migliori parti di chitarra di Come Taste the Band.

Siamo in conclusione e finalmente Keep On Moving tira fuori quella che forse è l’intuizione migliore di tutto il disco. Il basso apre – con un riff ficcante – il campo all’andamento marziale della batteria. Finalmente si sente l’organo di Lord e anche la chitarra di Bolin pare più pertinente. La parte vocale è cantata in coro e tutto il brano sale in un salvifico crescendo.

Keep On Moving è l’unico passaggio di Come Taste the Band abbastanza epico da poter ambire allo status di classico; non è un caso che nei vari Greatest Hits dei Deep Purple sia spesso l’unica traccia della MK IV. Il suono – finalmente! – è piacevolmente british e il lungo assolo d’organo di Jon Lord è la proverbiale ciliegina sulla torta. Keep On Moving è un pezzo meraviglioso che chiude un album non certo fondamentale nell’opera omnia dei Deep Purple. Ian Gillan, anni dopo, si spingerà a dire di non considerare il lavoro parte della discografia della band, mentre negli anni parte di fan e critica rivaluteranno l’album senza particolari argomentazioni.

Il disco vende benino ma non benissimo; tuttavia, il peggio deve ancora arrivare. Tommy Bolin si mostra decisamente insofferente alla richiesta di suonare nei live i vecchi brani alla maniera di Ritchie Blackmore. Non solo, il chitarrista lega tantissimo con Glenn Hughes, non tanto per affinità musicali ma perché i due condividono certe abitudini riguardo alle sostanze stupefacenti.

Glenn è un consumatore industriale di cocaina, mentre Tommy è appena entrato nel tunnel dell’eroina. Come Eric Clapton, Bolin ha paura degli aghi e consuma smodate quantità di eroina sniffandola. In un maldestro tentativo di iniettarsi la droga, il musicista sbaglia qualcosa e il suo braccio risulta per un periodo praticamente insensibile.

Nello stesso momento i Deep Purple sono in tour in Giappone, dove il celebre Made in Japan ne ha decretato lo status di star. I concerti, da cui malauguratamente si decide di trarre un live, sono un disastro; Lord è costretto a suonare le parti di chitarra con l’organo, mentre Bolin suona solo gli accordi e si aggira come uno zombie.

I Deep Purple iniziano a essere circondati da una pessima aura e – soprattutto – da loschi figuri di spacciatori. Intorno alla band si respira un’aria pericolosa e Tommy Bolin suona sempre peggio. L’epilogo a Liverpool il 19 marzo 1976, quando l’americano collassa sul palco, decretando di fatto lo scioglimento della band.

Meno di nove mesi dopo, Tommy Bolin muore a Miami, dopo un concerto, vittima di un mix di whisky, champagne, cocaina ed eroina.

Per molti anni Come Taste the Band rimane la pietra tombale sulla storia dei Deep Purple; almeno fino agli anni Ottanta e all’ennesima rinascita.

— Onda Musicale

Tags: Deep Purple, Ritchie Blackmore, Ian Paice, Billy Cobham, Jon Lord, Rainbow, ZZ Top, Joe Walsh
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