Bethel e Woodstock sono due piccole cittadine molto simili tra loro. La prima dista circa 170 Km da New York City e 4500 Km da Los Angeles, dall’altra parte degli Stati Uniti.
Di suo non ha granché da offrire, se non bei paesaggi montani, tanto verde e, nelle stagioni migliori, un bel cielo azzurro. E in effetti non starebbe neanche in questa storia, se non fosse che ha ospitato il più importante festival del rock che sia mai stato realizzato. Woodstock è una cittadina che si trova poco più a nord di Bethel, ma a Bethel c’era lo spazio giusto e la giusta atmosfera.
Andiamo insieme a conoscere chi ha resto questa città memorabile e ha contribuito a portare nella storia quello che avrebbe dovuto essere solo un concerto di provincia.
C’è sempre qualcuno in ritardo
Richie Havens non era il primo della lista a Woodstock. Alle 17 del 15 agosto del 1969, però, gli Sweetwater non si erano ancora presentati e il concerto doveva iniziare. Lang, Rosenman, Roberts e Kornfeld si aspettavano circa 50.000 persone. Ne sono arrivate 400.000. E bisognava iniziare ad intrattenerli per evitare il più grande flop della storia umana. Così presero Richie e lo misero sul palco. “Vai, inizia tu”, gli hanno detto. E così Richie Havens, di Brooklyn, apre il più importante concerto della sua vita. Un concerto che gli cambierà per sempre l’esistenza e al quale contribuirà a dare un’impronta estremamente pacifista e politica, così come già era l’aria che si respirava da qualche anno. La Summer of Love non era ancora finita, anche se volgeva al termine, e quel festival ne è stata l’apice.
Intendiamoci, Richie Havens non era proprio un novellino
Aveva un contratto con il manager di Dylan e suonava regolarmente al Village, a NYC. Ma 400.000 persone sono tante. Quindi salta su, prende la sua chitarra e inizia a cantare. La sua voce è roca e graffiante e la sua chitarra suona forsennatamente. La tracklist dei dischi ufficiali riporta undici brani, suonati nel modo in cui aveva fatto per anni nei locali del Village: piede che batte come una cassa, ritmi della chitarra velocissimi e una passione incredibile nella voce. Una passione che aveva nel sangue e che si portava dietro già da quando era un ragazzino. Prima le piccole formazioni doo-wop, poi il gospel. E poi il nonno e lo zio che di palchi ne avevano solcati a centinaia, correndo dietro ai cavalli del circo western di Buffalo Bill. Tra l’altro il nonno, nativo americano, faceva parte della tribù dei Piedi Neri.
Ma il sogno era quello di suonare per professione
E così si sposta da Brooklyn al Village, dove tutti potevano avere una possibilità reale. E infatti inizia così la sua carriera, suonando tra un locale e l’altro i suoi (pochi) pezzi e le cover di chi è arrivato prima di lui: Dylan, Baez, Beatles…
Fino a quando non viene notato da Albert Grossman, manager di mr. Zimmerman da Duluth, per entrare nella sua scuderia.
Il primo disco, “Mixed Bag” è del 1966 e contiene un paio di brani suoi e il resto cover, con titoli dei soliti Dylan e Lennon/McCartney. In realtà il disco è più che buono e Richie è davvero fenomenale. Seguiranno altri quattro lavori, così che ne 1969 avrà all’attivo ben cinque album pubblicati con la Verve. Ognuno di questi dischi starà, però, sempre poco sopra la posizione numero 200 della classifica. Fino al Concerto.
La performance di Woodstock
Si sa che sul palco del Festival di Woodstock ha suonato almeno undici brani. Dico almeno perché, tra la voglia di continuare a stare sul quel palco incredibile (condiviso con Paul “Deano” Williams alla chitarra e Daniel “Natoga” Ben Zebuolon alle percussioni), la necessità di continuare a coprire i ritardatari e la sua incredibile energia che lo fanno richiamare dal pubblico ancora e ancora, Richie passerà quasi tre ore lassù.
E sarà soprattutto alla fine che mostrerà il meglio di sé
I’d already played every song I knew and I was stalling, asking for more guitar and mic, trying to think of something else to play – and then it just came to me … The establishment was foolish enough to give us all this freedom and we used it in every way we could” (Ho già suonato tutto quello che potevo e ogni canzone che conoscevo, e continuavo a stare lì pensando a cos’altro avrei potuto suonare a tutta quella gente – e semplicemente mi venne in mente… l’organizzazione fu così folle da darci tutta la libertà che volevamo e noi l’abbiamo usata ogni momento in cui fosse possibile).
Il brano che canta è “Motherless Child”, un vecchio spiritual che cantava da ragazzino, ma la sua intuizione è quella di inserire la parola “Freedom” come intercalare tra una strofa e l’altra. E sarà davvero la scelta della sua vita.
Quella versione di “Motherless Child” lo porterà ai vertici più alti delle classifiche. Un’intuizione che gli renderà per tutta la vita, anche se fra alti e bassi.
Dopo il concerto la svolta
I periodi successivi a quell’incredibile concerto sono stati segnati dall’apertura di una propria etichetta discografica e del lancio di “Stonehenge”, nel 1970, che contiene “Here Comes the Sun”, a firma George Harrison, che gli farà guadagnare, per la prima volta, la top 30. E poi ancora dischi e soprattutto apparizioni in TV, che gli permetteranno di proseguire la carriera.
Tra gli anni ’80 e ’90 si ritrova a realizzare jingle e musiche per marchi prestigiosi e per alcuni dei canali televisivi più importanti degli States. Forse, il momento più importante post Woodstock lo avrà nel 1993, quando suona all’insediamento del neo presidente Bill Clinton. E poi ancora televisione e interessanti collaborazioni con i Groove Armada e il nostro Pino Daniele.
Morirà all’età di 72 anni per un attacco cardiaco, lasciando nel cuore di molti quel suo grido: Freedom!