Slowdive, Ride e My Bloody Valentine sono solo alcuni dei nomi di cui molto probabilmente sentirete parlare ogniqualvolta doveste imbattervi in una conversazione incentrata sullo “shoegaze“.
Un termine strano, curioso, diventato simbolo di un genere che ancora oggi è capace di attirare manciate di ascoltatori da ogni parte del mondo. Shoegaze, infatti, non è altro che una parola composta dai termini “shoe” (scarpa) e “gaze” (sguardo), nata a posta per descrivere quel genere di musicisti (bassisti e chitarristi in particolare) che durante l’esecuzione di un brano sono soliti fissare con una certa insistenza i pedali posizionati vicino ai propri piedi, distinguendosi per un atteggiamento piuttosto distaccato rispetto a una folla dopotutto non così scatenata.
Il pesante uso degli effetti a pedale, infatti, costringeva chitarristi e bassisti a mantenere continuamente lo sguardo rivolto verso il basso per poco meno dell’intera durata delle esibizioni a cui prendevano parte, anche se, a onor del vero, non furono certo queste le uniche figure che finirono per sviluppare una tendenza simile.
Partiamo, però, dalla definizione scolastica del termine
Lo shoegaze (o shoegazing) è un sottogenere musicale – di derivazione indie/alternative rock – sviluppatosi nel Regno Unito alla fine degli anni ’80, i cui tratti distintivi sono da ricercare in elementi quali distorsione, feedback, riverbero e in atmosfere a dir poco oniriche che hanno spesso finito per affiancarlo al cosiddetto dream pop di neo-psichedelica memoria. Non a caso, il genere cominciò ad emergere proprio fra i vari gruppi neo-psichedelici di origine britannica che, come si è detto, amavano esibirsi con un atteggiamento di totale distacco rispetto al proprio pubblico.
In netta contrapposizione con quello che, insomma, era stato il fenomeno punk di appena un decennio prima
Perché è bene sottolineare che questo genere di artisti non saliva certo sul palco per assicurare un divertimento euforico e sconclusionato, al contrario, essi erano soliti mostrarsi preoccupati ed insicuri esattamente quanto il loro pubblico, condividendo con quest’ultimo la medesima timidezza, i medesimi dubbi, la medesima inadeguatezza nei confronti dell’esperienza umana.
Immobili (o quasi) sul palco
Si parla, dunque, di intere formazioni (frontman incluso) che usavano rimanere completamente immobili davanti agli occhi dello spettatore, in uno stato di apparente catarsi. Dopotutto, sarà proprio un frontman ad ispirare la genesi del termine “shoegaze“, il quale, appunto, deriverebbe da una recensione di un concerto dei Moose – curata dal magazine britannico Sounds –, il cui cantante Russell Yates era solito leggere le liriche delle proprie canzoni – saggiamente registrate sul pavimento – durante le esibizioni dal vivo. Il termine fu poi ripreso dalla nota rivista britannica NME che lo ricollegò alla medesima tendenza, in questo caso legata a chitarristi e bassisti, di cui già si è discusso. Furono il giornalismo e la critica musicali dell’epoca, dunque, a giocare un ruolo di fondamentale importanza nella definizione del genere e del suo sviluppo.
È interessante, per esempio, quanto scritto da Steve Sutherland per Melody Maker nel 1990
descrivendo la nascente scena shoegaze come una scena dedita alla celebrazione di se stessa, facendo riferimento all’abitudine che queste band avevano di collaborare a svariati progetti comuni o – molto più semplicemente – di partecipare le une alle esibizioni delle altre. Un clima di supporto reciproco, quindi, univa le varie formazioni britanniche, legate da un suono “nuovo”, che non poteva non rimandare a certe produzioni di Phil Spector in cui fondamentale era la presenza del suo celebre “Wall of Sound”, qui corretto ed aggiornato.
genere/non genere
Lo shoegaze, quindi, sin dalla sua origine si presentava come un genere/non genere che non si sforzava minimamente di fingere, di omettere né tantomeno di edulcorare la realtà e semplicemente perché non ne sentiva l’esigenza. Al contrario, cercava di fare in modo che l’aspetto umano risaltasse – nella sua integrità – sempre e comunque, fino a prevalere su quello di carattere prettamente musicale, fatto di distorsioni e di una realtà che tra le note, forse, sembrava acquisire un valore maggiore.
Perché, forse, la parola “shoegaze” non dovrebbe significare nient’altro che questo: saper abbracciare le proprie debolezze tanto profondamente fino al punto da andarne fieri.