E’ il 1972, Tim Buckley è già divorato dai demoni di alcol e droghe, dagli insuccessi commerciali e dalla piena consapevolezza di possedere un talento unico.
Ha 25 anni, sei album alle spalle e la necessità di dover dare una svolta alla sua carriera; non tanto per accontentare il pubblico o i discografici; non tanto per mantenere se stesso e le sue famiglie (il figlio Jeff ha già cinque anni) ma per costruire un’ancora in grado di salvarlo dalla depressione, per deviare il suo percorso artistico, coniugare sperimentazione e solide radici.
Spirito eclettico, anticonformista, dotato di un’estensione vocale da brividi e di un coraggio creativo insolito, decide di raccogliere a piene mani frammenti di soul, rock e rhythm and blues e costruire un faro musicale, illuminato dalla sua voce.
Il risultato è un album magistrale, con basi ritmiche robuste e coinvolgenti, sorretto da session men di riguardo, che riesce a farsi apprezzare fin dal primo ascolto, capace di rendere potabile a qualsiasi orecchio anche pezzi come Sweet Surrender, dove le sue corde vocali si elevano fin sopra la musica, dolce e struggente; o la funkeggiante Devil Eyes col suo testo ammiccante, provocatorio; oppure la calda, ipnotica Hong Kong bar, una di quelle canzoni che potrebbe continuare per ore, e non ti stancheresti mai di ascoltare.
Last but not least
Ultima, last but not least, Make it right, a mio giudizio una delle più belle canzoni di sempre, capace di emozionare, scuotere: comincia come fosse uno scherzo, uno scambio in sala di registrazione che qualcuno non ha voluto tagliare; parte tranquilla, non ti vuole sorprendere, ma presto capisci che ha qualcosa in più, arrangiamenti che ti prendono per mano, ti sollevano per poi lasciarti andare, con gli archi a sorreggere una costruzione musicale impeccabile; fino al crescendo finale, con un grido, un lamento che eiacula possenza e tragedia.
La copertina di una L.A. vista dall’alto, quasi a voler comunicare distanza e bellezza, distacco e sospensione; il retro a mo’ di cartolina e il francobollo con la sua figura scapigliata mentre sorregge una maschera antigas sono tutti elementi che trasudano quella sana e stoica irriverenza, quel bisogno di rimanere in costante movimento, anche artistico; pronti a ogni evenzienza.
Il grande successo di Tim Buckley, quello tanto agognato? Non proprio
Accolto dalla critica e dal pubblico con tiepida diffidenza, boicottato, sminuito, troverà la dignità che merita solo in tempi postumi, come spesso accade, lasciando che la genialità di questo grande artista venga divorata completamente dai demoni di cui sopra. Il suo spiccato senso critico, un animo sensibile, il disagio nel sentirsi una marionetta dello show business e un istinto ribelle che lo obbliga alla coerenza non gli sono e non saranno certo d’aiuto. Seguiranno altri due album, “Sefronia” e “Look at the fool”, ma la parabola discendente è ormai tracciata.
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Ma come si inserisce questo album nel panorama musicale americano del 1972?
Tim Buckley ha un suo pubblico di nicchia, che non accetta questa “deriva commerciale” e ne decreta l’insuccesso, mentre sugli scaffali compaiono dischi come “Harvest” di Neil Young, “On the corner” di Miles Davis, “Made in Japan” dei Deep Purple, “Caravanserai” dei Santana, “Exile on Main St.” dei Rolling Stones. Tanta roba, si direbbe oggi.
Triste epilogo
Tim Buckley morirà di overdose pochi anni dopo, lasciando quel vuoto che solo le menti brillanti fulminate sanno lasciare, quel buio di cui ci si accorge quando è ormai troppo tardi. Sarà il figlio Jeff a raccogliere il testimone, dotato anch’esso di una voce strepitosa, destinato anch’esso a una fine prematura e straziante.
(Scritto da Fabio Casto)