Bethel e Woodstock sono due piccole cittadine molto simili tra loro. La prima dista circa 170 Km da New York City e 4500 Km da Los Angeles, dall’altra parte degli Stati Uniti.
Di suo non ha granché da offrire, se non bei paesaggi montani, tanto verde e, nelle stagioni migliori, un bel cielo azzurro. E in effetti non starebbe neanche in questa storia, se non fosse che ha ospitato il più importante festival del rock che sia mai stato realizzato. Woodstock è una cittadina che si trova poco più a nord di Bethel, ma a Bethel c’era lo spazio giusto e la giusta atmosfera.
Il viaggio prosegue con un musicista che si distinse per la grazia e la delicatezza della sua voce e della sua chitarra, Tim Hardin.
Guarda mamma, sono un marine!
Il mondo della musica rock è pieno di personaggi che hanno letteralmente fatto di tutto per rovinarsi la vita, e Tim Hardin è ineccepibilmente uno di questi. Figlio d’arte (i genitori erano entrambi musicisti) si è ritrovato spesso a dover vivere l’infanzia a casa dei vicini, perché i suoi genitori erano via per le tournée. Questo primo distacco, e il non aver nessun talento particolarmente spiccante, fece di lui una specie di solitario che trovava conforto nelle prime dosi di pastiglie di farmaci ingoiate per cercare serenità.
Non che il rapporto con i genitori fosse poco felice, ma non c’era nulla che lo tenesse attivo al punto di avere un solo pensiero nella testa. Insomma, era una persona normale che, come molti, purtroppo, ha pensato di rifugiarsi nelle dosi sempre più massicce di farmaci. Chiaramente non mancava la musica in casa, ma, appena ha potuto, si è arruolato nei marines ed è stato inviato nel sud-est asiatico, prima che la guerra diventasse una drammatica realtà. Erano gli ultimi anni dei ’50. È con i marines che inizia a farsi di eroina, per non smettere più.
Il Greenwich Village, Boston e L.A.
È nel Village che inizia la sua carriera di musicista. Conosce i più importanti cantautori dei primissimi anni ’60 e inizia a farsi strada nel mare di occasioni che in molti cercavano di afferrare, per avere un’opportunità. Ma non basta ancora, e dopo un paio di anni si trasferisce a Boston, dove fa la conoscenza di Erik Jacobsen, un banjoista che, affascinato dalla sua voce, lo convince a tornare a NY per registrare delle demo per la Columbia. Le cose sembrano mettersi bene perché quelli sono gli anni del folk revival e tutti hanno la loro possibilità. Tranne Tim. Lui viene scaricato e, di tutta risposta, se la tenta a Los Angeles.
Al ritorno a casa, nell’Oregon, prende la decisione di mollare tutto per tentarsela con la carriera di attore, e si trasferisce a New York per studiare alla American School of Dramatic Arts, ma si stancherà presto anche di questo. Intanto arrivano le prime canzoni, alcune delle quali già scritte durante gli anni tra Cambogia e Laos.
A Ovest accadono molte cose positive: conosce Susan, la madre di suo figlio Damian, e firma per la Verve. Il primo disco, “Tim Hardin 1” è suonato da alcuni dei migliori musicisti sulla piazza, come Gary Burton (che farà una bella carriera come jazzista) e John Sebastian, che invece suonerà la sua armonica con i Lovin’ Spoonful.
Tim cerca un suo sound e le recensioni sono buone, ma non le vendite. Così la Verve ci riprova ed esce “Tim Hardin 2”, che contiene uno dei brani che maggiormente ha reso famoso Tim, “If I Were a Carpenter”, resa famosissima da Bobby Darin prima e da Johnny Cash poi.
In quel periodo, nel 1967, Tim inizia a farsi di eroina pesantemente, tanto da arrivare a picchiare la moglie, che, stanca di lui, lo lascerà e se ne andrà con il figlio. La crisi è profonda e non bastano le scuse uscite con i dischi successivi a placare gli animi. Nel 1968 esce un terzo disco, forse il vero capolavoro: “Tim Hardin 3: Live in Concert”. Le vendite continuano a non salire e, dopo un “Best Of” ancora sotto la Verve, viene scaricato dalla major per essere poi preso dalla Columbia, che pochi anni prima lo aveva messo da parte.
Woodstock
Nel 1969 Michael Lang, già organizzatore del Festival, lo invita a partecipare al più grande live del periodo. Vi ho già detto di come Richie Havens aprì il concerto, ma non vi ho detto che sarebbe dovuto essere Tim a farlo. In quel periodo era abbastanza sobrio e pulito, ma vuoi l’agitazione, vuoi il vedere cinquecentomila persone davanti a te, non se la sentì e si mise a bere insieme ai suoi compagni. Richie, invece, non perse l’occasione.
Il live non fu un granché: la prima parte era in acustico, con Tim Hardin che si accompagnò con la sua chitarra; la seconda parte fu invece un mezzo disastro perché non conosceva bene i musicisti con cui si mise a suonare, quindi la session elettrica non fu “elettrizzante”. E poi erano ubriachi marci. Diciamo che se si pensa a Woodstock, Tim Hardin non è proprio il primo nome che viene in mente, ecco…
Un triste epilogo
Eppure ha saputo scrivere dei brani che sono entrati nella storia e che sono stati la fortuna per alcune grandi star del pop-rock, come Rod Stewart che ha cantato “Reason to Believe”. E poi un disco decisamente fuori dagli schemi, “Suite for Susan Moore and Damion: We Are One, One, All in One”, difficile all’ascolto per il grado di sperimentazione raggiunto.
Tim Hardin non ha forse saputo cogliere le occasioni, o forse non ha voluto farlo. L’eroina, sempre presente (a parte una piccola parentesi di sobrietà), non l’ha aiutato affatto, anche se lui era convinto del contrario. Prova a rifarsi una nuova vita con una nuova donna. Cerca di recuperare i rapporti con l’ex moglie e il figlio. Ma il destino vuole altro. Tim Hardin morirà di overdose da eroina nel 1980, pochi giorni dopo l’omicidio di John Lennon. Neanche in questo caso riuscì ad avere qualche pagina per sé sui giornali.
Alla prossima con Melanie Safka (e una breve parentesi su Ravi Shankar).