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The Bends, i Radiohead alla vigilia della loro grande esplosione

The Bends, la copertina

Quando esce The Bends, il secondo album dei Radiohead, nel marzo del 1995, nessuno immagina il futuro della band. I Radiohead, infatti, da complesso sottovalutato, passeranno in breve alla storia del rock.

Prima di parlare di The Bends, però, è necessario fare un salto alla metà degli anni Novanta. Il mondo musicale è dominato da due grandi realtà che hanno riportato il rock, quello fatto di chitarre e atteggiamenti ribelli, sulla cresta dell’onda. I patinati anni Ottanta sembrano già lontani, ora impazzano il grunge e il brit pop.

Nei primi anni Novanta, infatti, dagli Stati Uniti è partita l’onda del ritorno al suono grezzo delle chitarre elettriche, con band come Nirvana, Soundgarden, Alice in Chains e Pearl Jam. Di qua dall’oceano, invece, i nomi da tenere d’occhio sono Oasis, Blur e Pulp. Il grunge propone tematiche cupe e suoni indie e garage, e guarda a Neil Young e al punk quali numi tutelari.

In Gran Bretagna, come sempre, prevale una linea filtrata da ironia e suoni più complessi, specie per Blur, Pulp e Suede. E proprio nei primi anni Novanta, cinque ragazzi dell’Oxfordshire iniziano a provarci sul serio con la musica. I giovani suonano insieme dai tempi della scuola, la Abingdon School di Oxford, rigido istituto riservato solo ai maschi.

Si fanno chiamare On a Friday, nome che deriva dal giorno in cui si riuniscono per provare. Il nucleo originale è costituito da Thom Yorke e Colin Greenwood, a cui si aggiungono altri alunni dell’istituto: Jonny Greenwood, fratello di Colin, Philip Selway e Ed O’Brien.

Thom ha diciotto anni ed è già un personaggio particolare; la sua infanzia è stata segnata da due problemi, uno di salute e uno sociale. Una paralisi congenita all’occhio sinistro è infatti alla base di numerosi interventi chirurgici e del suo caratteristico aspetto; l’abitudine dei genitori di cambiare continuamente città, a causa del lavoro, è invece la causa di una patologica difficoltà nel creare legami umani.

Gli On a Friday, dopo essersi chiamati brevemente Shindig e Manic Hedgehog, si ribattezzano Radiohead in onore di un pezzo dei Talking Heads. Il 1993 è l’anno dell’esordio con Pablo Honey, album di incerta direzione artistica, tra chitarre grunge, suoni indie e tematiche adolescenziali. Pablo Honey, però, contiene Creep, brano che la BBC considera troppo deprimente per essere trasmesso, ma che negli Stati Uniti fa il botto.

Improvvisamente, sui Radiohead piove il successo. Il loro, però, è un successo travisato: la band, infatti, non vuole affatto essere una one hit wonder e soffre particolarmente i lunghi tour americani, dove sono conosciuti come la band di Creep. L’insofferenza di Yorke e soci verso il brano e Pablo Honey in generale è tale che, dopo quel tour, si rifiuteranno si eseguire i pezzi dell’album, tranne che in rare occasioni.

La Parlophone decide però di puntare su di loro, nonostante i ragazzi siano ben decisi a cambiare totalmente suoni e atmosfere. I brani per The Bends sono pronti da un po’ e chi li ha sentiti capisce immediatamente che sono migliori di quelli di Pablo Honey.

The Bends rimane tuttora un album controverso nella discografia dei Radiohead; schiacciato tra il mezzo passo falso di Pablo Honey e l’inarrivabile capolavoro di OK Computer, è in realtà un lavoro seminale di importanza indiscutibile. Sembra quasi incredibile che, in poco più di un anno, l’ingenua band di Pablo Honey possa avere tanto progredito. I suoni si sono fatti strutturati e rarefatti, suggestioni acustiche e psichedeliche affiorano tra i solchi del disco.

Il successo, con grande sollievo di Yorke, è minore del debutto, ma The Bends fa parlare molto tra critici e riviste specializzate. La voce di Thom viene paragonata – non sempre a proposito – a quella di Bono Vox e di Jeff Buckley, da cui viene l’uso del falsetto. E mentre il brit pop vive la sua breve e gloriosa stagione, con Oasis e Blur che litigano pensando di essere Beatles e Rolling Stones, i Radiohead completano una crescita inattesa che li porterà a surclassare tutti i rivali.

Dai semi di The Bends nasceranno frutti non sempre all’altezza dei Radiohead, a volte rinnegati dagli stessi; il loro rock un po’ depresso ispirerà i primi Coldplay, ma anche i Travis, i Keane e band minori come Athlete e Turin Brakes. Certe cavalcate epiche e malinconiche lasceranno tracce profonde specie nei Muse.

Ora è però il momento di mettere The Bends sul nostro piatto virtuale e capire come suona questo disco cult, a ventisette anni e passa dall’uscita.

L’attacco di Planet Telex è subito esplicativo della crescita del complesso. Suoni ambientali desertici, fruscii del vento e un drumming potente che fa da sfondo alla chitarra. La voce di Yorke suona sinuosa e disperata, per elevarsi nel ritornello, tra pennate di chitarra e vocalizzi che effettivamente ricordano un po’ gli U2.

A differenza di Pablo Honey, è il suono di una rockband adulta, con una precisa direzione artistica. The Bends, la title-track che originariamente si intitolava The Benz, è stata scritta prima di Pablo Honey. Nonostante le influenze grunge siano chiare, il brano si distingue per la sua complessità; The Bends è infatti divisa in cinque sezioni, anticipando in parte il capolavoro di Paranoid Android dell’album successivo.

Anche la successiva High and Dry risale, per la composizione, ai tempi di Pablo Honey. Il brano diventa uno dei primi pezzi iconici della band, col falsetto di Thom Yorke nel ritornello che inizia a diventare un marchio di fabbrica. L’andamento è rilassato, ma le atmosfere sono meno deprimenti e negative che in pezzi come Creep.

Rispetto all’album d’esordio è ben evidente la maggior organizzazione del suono. Mentre in Pablo Honey Yorke, Greenwood e O’Brien suonavano le chitarre elettriche sovrapponendosi e creando un muro a volte sfocato, qui ognuno ha la sua parte. Thom suona spesso l’acustica, O’Brien la ritmica e Jonny Greenwood si prende in carico le scarne parti soliste.

Si passa così a Fake Plastic Trees, sicuramente uno dei pezzi forti di The Bends e, in definitiva, di tutto il canzoniere dei Radiohead. Almeno del primo periodo. Appassionato atto d’accusa contro la società di plastica dei consumi, anche se nato per scherzo da una serata solitaria e alcolica di Thom Yorke, il testo poggia su una struttura acustica.

La melodia è cristallina e mette in risalto l’impareggiabile vocalità di Yorke; si passa dal falsetto quasi sussurrato all’urlo disperato del finale. La atmosfere sono affini al capolavoro No Surprises; tutto, in Fake Plastic Trees, è perfetto, dall’arrangiamento al feeling, e tutto rimanda a una band in stato di grazia.

Bones vanta una intro desertica, con la chitarra che sfrutta l’effetto tremolo; il pezzo, tuttavia, non è riuscitissimo e ricorda un po’ certi passaggi dei REM, altra band a cui i Radiohead devono qualche ispirazione. La qualità torna a impennarsi con Nice Dream, stupenda ballata con la caratteristica interpretazione lamentosa di Yorke.

Su un tappeto acustico si leva una melodia malinconica e perfetta, una di quelle che ti si appiccicano addosso. Disfarsi di Nice Dream non è uno scherzo, si tratta di una ballata che possiede il misterioso dono di entrare sottopelle; ben lo sapevano i produttori di How i Met Your Mother, la serie TV cult, che la utilizzarono per una scena rimasta celebre.

Il pezzo va in crescendo, quasi in una sorta di rave-up, per poi rallentare e tornare al tema iniziale.

Just è un brano prevalentemente scritto da Jonny Greenwood e che rimanda, nell’intro, a certe atmosfere dei Nirvana. La chitarra che doppia la voce di Yorke nelle strofe e una rarità quasi jazz nel sound dei Radiohead. Peccato che il ritornello appiattisca un po’ tutto, vanificando alcune intuizioni ottime.

My Iron Lung è il brano che i Radiohead scrivono quando la casa discografica chiede loro una replica del successo di Creep. E i Radiohead, con grande ironia, sfornano un pezzo che metaforicamente prende in giro proprio quel singolo; il polmone di ferro a cui il testo allude, fa riferimento proprio all’opprimente effetto del successo di Creep. Musicalmente My Iron Lung propone un attacco di beatlesiana memoria e un ritornello con chitarre esplosive.

Bullet Proof… i Wish i Was è una lenta ballata atmosferica che scorre però via senza particolari emozioni. Black Star, ancora una ballata imperniata sul falsetto di Thom Yorke, è piuttosto sottovalutata nel repertorio del gruppo, ma merita sicuramente un ascolto attento. La strofa e il ritornello si compenetrano perfettamente e rimangono piacevolmente impressi nella mente.

Sulk è dedicata al massacro di Hungerford, strage avvenuta nel 1987. Michael Ryan, l’autore del massacro, era un ventisettenne che uccise sparando quindici persone, prima di togliersi la vita, apparentemente senza alcun motivo. Il pezzo ha un suono piuttosto abrasivo, con la chitarra elettrica molto in evidenza e un risultato che rimanda vagamente agli U2.

The Bends si avvia alla conclusione, ma c’è ancora spazio per un capolavoro, Street Spirit (Fade Out). Su un insistente arpeggio di chitarra elettrica si inserisce la voce salmodiante di Yorke. La melodia struggente, accompagnata all’epoca da un bellissimo video, è sinuosa e indimenticabile. Le atmosfere ricordano un po’ il futuro capolavoro Exit Music (For a Film), soprattutto nell’uso straniante dei cori, e daranno più di un’idea a band come i Muse.

The Bends si chiude così, col definitivo colpo del KO.
Sebbene il successivo OK Computer finirà per metterlo in ombra, l’album si può a buon diritto definire un capolavoro e uno degli album più importanti del suo decennio, soprattutto nel definire un suono che farà infiniti proseliti.

La storia dei Radiohead è però, a quel punto, appena all’inizio e proseguirà con scelte non sempre condivisibili, ma sempre coerenti. E sempre lontane dal facile successo.

— Onda Musicale

Tags: Talking Heads, Jonny Greenwood, Thom Yorke
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