Musica

Woodstock, la setlist: Joan Baez

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Bethel e Woodstock sono due piccole cittadine molto simili tra loro. La prima dista circa 170 Km da New York City e 4500 Km da Los Angeles, dall’altra parte degli Stati Uniti.

Di suo non ha granché da offrire, se non bei paesaggi montani, tanto verde e, nelle stagioni migliori, un bel cielo azzurro. E in effetti non starebbe neanche in questa storia, se non fosse che ha ospitato il più importante festival del rock che sia mai stato realizzato. Woodstock è una cittadina che si trova poco più a nord di Bethel, ma a Bethel c’era lo spazio giusto e la giusta atmosfera.

Oggi è il momento di Joan Baez e di ciò che ha rappresentato e ancora rappresenta.

La venuta degli dei

Quando Joan Baez salì sul palco del Festival di Woodstock, il 16 agosto del 1969, all’una di notte, era già la regina incontrastata del folk americano. Non c’erano bisogno di presentazioni. Lei era Joan Baez! Finalmente il Festival iniziava a tirare fuori le sue carte migliori, anticipando le (deliranti, sotto molti aspetti) giornate successive.

Il trono lo guadagna già nel 1959, quando presenzia al Newport Folk Festival. Lei e Dylan sono i padroni della scena del Village e, come per dare risalto a tutto ciò, hanno anche una relazione. In buona sostanza sono stati la coppia reale del folk americano.

Nata nel 1941 a Staten Island, figlia di un fisico del MIT di Boston e di una donna con radici scozzesi, Joan viene invitata a Newport da Bob Gibson, un musicista folk che farà una brutta fine a causa dell’alcol e della droga. Da qui in poi è solo discesa. Ben due grandi major le offrono un contratto, la Capital e la Verve. Lei sceglie la Verve, perché era un po’ più piccola e quindi avrebbe avuto un po’ più di libertà espressiva.

E così inizia a registrare. Prima di salire sul palco costruito a Bethel, sono ben 13 gli album usciti a suo nome. Nel frattempo, dopo la relazione con Dylan, sposa David Harris, un attivista come lei, conosciuto in carcere.

Woodstock

Quando sale sul palco, David è nuovamente in carcere. E Joan è incinta di sei mesi. Eppure, all’una di notte, la gente pende dalle sue labbra. Nonostante le aspettative sui tre giorni di concerto fossero saltate come i gamberetti nel wok (500.000 persone ammassate, con scarsità di viveri, acqua, posti per dormire e in più la pioggia che ha reso il campo di Bethel una specie di letamaio), tutto era incredibilmente pacifico. Le persone si aiutavano tra di loro. È chiaro girava tanto di quel LSD che avrebbe fatto paura a Timothy Leary, ma, nonostante questo, tutti erano in perfetta armonia. E Joan, in quel momento, in quel luogo, era la persona giusta.

Il suo enorme impegno politico le ha permesso di cantare davanti al reverendo Martin Luther King Jr., e non poteva che essere così. Sul palco, sale con Richard Festinger e Jeffrey Shurtleff, entrambi chitarristi. Un set di una decina di canzoni, per circa un’ora di concerto.

Le canzoni

Si inizia con “Oh, Happy Day!”, in versione chitarra e voce e nulla di più. Chiede al pubblico di sedersi, e dal refrain in poi sono tutti suoi.

Successivamente suonò “The Last Thing on my Mind” di Tom Paxton e “I Shall be Released” di Bob Dylan, affiancata da Festinger e Shurtleff. Il palco era buio, illuminato solo da qualche lampadina, e sotto questa atmosfera inizia a raccontare di suo marito David, che è in carcere. Canta per lui “Joe Hill”. Ha poi cantato una delle sue canzoni, “Sweet Sir Galahad“, che dicendo al pubblico di averla scritta su suo cognato. Per questa canzone, Joan ha suonato diversamente dal solito, pizzicando le corde della chitarra in un modo alternativo al suo normale.

Fresinger e Shurtleff si sono uniti di nuovo a Baez per la canzone di Gram Parsons, “Hickory Wind“, seguita da un’altra canzone di Parsons (co-scritta dal compagno di band dei Byrds, Roger McGuinn), “Drug Store Truck Drivin’ Man“, che Shurtleff ha dedicato all’allora governatore della California Ronald “Ray Gun”. Jeffrey Shurtleff  fa conoscere le sue capacità canore in “I Live One Day at a Time” di Willie Nelson, mentre Richard Festinger ha riempito con la chitarra i vuoti lasciati dai due cantanti, in un perfetto trio ben bilanciato.

Il set prosegue con due canzoni

La prima è di Jerry Garcia, “Take Me Back To The Sweet Sunny South“, mentre la seconda, “Warm and Tender Love“, è di Bobby Robinson. Quest’ultima è stata resa famosissima dalla versione di Percy Sledge, nel ’66. Quindi Richard e Jeffrey hanno lasciato il palco in mano a Joan, per terminare con il botto. L’ultimo brano è uno spiritual, “Swing Low, Swing Chariot” che Joan Baez ha cantato a cappella, perforato l’oscurità della tarda notte con la sua voce da soprano. Ha lasciato il palco, tornando per un bis, di nuovo da sola: “We Shall Overcome“. Questa volta suona la chitarra e il pubblico la accompagna, cantando quello che a tutti gli effetti è l’inno del Movimento per i diritti civili, la canzone che ha accompagnato Martin Luther King a Washington, il giorno in cui dice di “avere un sogno”. Anche coloro che erano troppo lontani dal palco, o che si erano già addormentati, raccontano di quella voce perfetta che li rassicurava.

E poi arriva la notte e arriva la pioggia. Tanta pioggia.

Con Joan Baez finisce la prima giornata di concerti. Noi ci prendiamo un piccola pausa ma torneremo presto con i Quill.

— Onda Musicale

Tags: Bob Dylan/Willie Nelson
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