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It’s a Shame about Ray dei Lemonheads compie 30 anni

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Il 2 giugno del 1992 i Lemonheads pubblicano un disco di piccole gemme preziose intitolato It’s a Shame About Ray: dodici canzoni in tutto per una durata complessiva che non supera la mezz’ora.

L’alt rock a tratti malinconico

Sembra poco, ma in realtà è quanto basta al songwriting punk malinconico di Evan Dando per consegnarsi all’eternità e guadagnarsi un posto nell’empireo dell’alternative rock, sfruttando nel migliore dei modi la voragine aperta da Nevermind dei Nirvana.

Rispetto ai colleghi di Seattle, i Lemonheads di It’s a Shame About Ray hanno un suono più (power)pop, ripulito di tutte le asperità tipiche del grunge, ragion per cui la stampa conierà il termine di “bubblegrunge”: Un grunge più “leggero”, in sostanza, fatto di melodie appiccicose che si ti incollano in testa e non si staccano più, proprio come una cicca tra i capelli.  

O forse dovremmo dire una caramella

Lo stesso Evan Dando, infatti, aveva dichiarato che le canzoni dei Lemonheads hanno un sapore dolce e amaro come le caramelle al limone da cui ha preso il nome la band:

Dolci all’esterno e amare, molto amare, all’interno. La nostra musica ha sempre avuto quella stessa tinta melanconica.”

Se la corazza musicale all’esterno è quella di un jangle pop scintillante, il nucleo tematico delle canzoni al suo interno è tutt’altro che luminoso, infestato com’è dalla malinconia del fantasma di Gram Parsons, eletto a nume tutelare del disco. Le canzoni dell’album parlano, infatti, di dipendenza dalle droghe, solitudine, relazioni famigliari fallimentari e difficoltà nell’approcciarsi alla vita adulta. 

Evan Dando le ha scritte quasi tutte durante il suo esilio in Australia

Grazie all’aiuto di una combriccola di musicisti locali, il cui supporto è stato fondamentale, sia per il morale, che per la scrittura concreta dei brani, soprattutto quello del chitarrista-cantante Tom Morgan, insieme al quale ha buttato giù in pochi minuti la title track.

Ispirata da un titolo di giornale, non si sa bene chi sia il protagonista del brano (ci sono varie teorie in proposito), ma quello che è certo è che Ray aveva bisogno di aiuto e nessuno è stato in grado di darglielo, per cui è andata a finire male – cosa che succede spesso nelle canzoni dei Lemonheads.

Droga e relazioni, un intreccio pericoloso

Nei restanti brani dell’album, la droga e le relazioni umane si intrecciano fra loro finché non vanno a braccetto, saltellando allegramente giù dal dirupo delle nostre debolezze, come nel caso del brano più parsoniano del lotto My Drug Buddy: una ballata dal ritmo ciondolante, come quello dei tossici, che all’apparenza parla della necessità di sballarsi per uscire da sé (“I’m too much with myself, I wanna be someone else / passo troppo tempo con me stesso / voglio essere qualcun altro”)  e dell’avere un amico con cui farlo per andare in giro tutta notte (“Walk until it’s light outside / camminare finché non fa giorno”), ma che, in realtà, vuole essere un modo per cercare disperatamente di non sentirsi soli, o almeno per far finta di non esserlo, pur avendone la piena consapevolezza –“We have to laugh to look at each other. We have to laugh ‘cause we’re not alone / Dobbiamo ridere per guardarci l’un l’altro, dobbiamo ridere perché non siamo soli”.

L’esperienza con l’ecstasy

Una cosa simile, ma con la luce della finta speranza accesa, avviene anche con Alison’s Starting To Happen, un brano che parte descrivendo la prima esperienza con l’ecstasy di un’amica (e nel farlo richiama alla memoria alcuni versi della Rock Off degli Stones di vent’anni prima), per poi diventare qualcos’altro, una sorta di riscoperta di sé stessi attraverso la musica punk rock e attraverso l’altro da sé:

Lei è il pezzo del puzzle finito dietro il divano che completa il mio cielo.”

La droga è protagonista anche di Ceiling Fan in My Spoon, come si può intuire facilmente dal titolo legato alla preparazione dell’eroina, mentre il fallimento totale delle relazioni sentimentali è ben rappresentato dai due brani migliori dell’album: Confetti e Hannah & Gaby.

La prima è una perla al fulmicotone zuccherato che parla del divorzio dei genitori di Dando, descritto con la frase sintatticamente più incasinata del disco, esemplificativa di quanto sia difficile esprimere il concetto:

He kinda shoulda sorta woulda loved her if he could’ve / Avrebbe forse dovuto o almeno voluto cercare di amarla, se solo avesse potuto”.

Il contributo di Jeff Baxter

Hannah & Gaby, invece, è il brano in cui si sente di più il soffio del country-rock, anche grazie alla pedal steel suonata da Jeff Baxter degli Steely Dan, che si sfilaccia nel vento insieme alla polvere e alla relazione dei due protagonisti. Del resto la citazione preferita di Evan Dando è quella del poeta Max Ehrmann che dice “L’universo si sta sfaldando come dovrebbe”.

Arrivati a un certo punto ci si accontenta anche soltanto di una piccola parte – Bit Part – in quella che è la sceneggiatura del film della vita altrui, pur di non rimanere soli, completamente allo sbando, come finirà lo stesso Dando dopo la sbornia del successo: like a ship without a rudder, like a ship without a rudder, like a ship without a rudder, canta e ripete magnificamente in Rudderless.

Dopo il successo dell’album lanciato dalla cover di Mrs Robinson su Mtv, seguiranno, infatti, anni di ricoveri, riabilitazione e vari annunci di morte – fortunatamente sempre smentiti – fino al recente ritorno sulle scene iniziato nel 2006 e tutt’ora all’attivo con il tour celebrativo del disco che ha fatto tappa anche in Italia a Milano e Bologna.

Lo shock dell’incontro

Ammmeto che quando l’ho visto di persona a distanza di così tanti anni non sono riuscito a riconoscerlo subito, l’ho incrociato mentre stava scendendo dal tour bus, aveva lo sguardo spento e l’ho scambiato per un roadie qualsiasi, scazzato dal fatto di dover lavorare in una tipica serataccia milanese. Quando poi l’ho rivisto sul palco ho capito. Il ragazzo che era si accende (o forse dovremmo dire starting to happen) solo quando attacca il jack della chitarra e comincia a distribuire le sue caramelle di gioia e dolore.

In ogni caso, sentirlo dal vivo o su disco non ne cambia la sostanza

A trent’anni anni di distanza, It’a Shame About Ray rimane un album delle meraviglie capace di accecare di luce e spremerci d’amarezza, mentre Evan Dando è ancora uno che dopo due ore di concerto ti puoi ritrovare fuori dal locale a deliziare gli ultimi rimasti con qualche scampolo di canzone: una stella polare caduta in disgrazia che continua a brillare sui marciapiedi sotto la pioggia.

— Onda Musicale

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