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Black Sabbath e Vol. 4: gli inventori del metal fanno poker

Il Vol. 4 dei Black Sabbath

Se il 1971 era stato un anno d’oro per l’hard rock, con Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath a sfornare capolavori, il 1972 è di poco da meno. Mentre la band di Page e Plant si prende una pausa, i Deep Purple sfornano Machine Head e i Black Sabbath il loro Vol. 4.

Il lavoro precedente a Vol. 4, Masters of Reality, è uno dei più importanti dei Black Sabbath. Dopo l’esordio all’insegna di un rock blues profumato di doom e con una confezione che strizza l’occhio all’occultismo e la conferma di Paranoid, i ragazzi di Birmingham gettano le basi dell’heavy metal.

Una delle trovate principali, tanto semplice quanto geniale, è quella di Tony Iommi, che abbassa l’accordatura della chitarra di un tono e mezzo; nasce così un suono cupo, plumbeo e – grazie anche a geniali riff – ossessivo. Lo stesso sound che sarà alla base di decenni di heavy metal.

Il Vol. 4, nonostante venga salutato da una parte di critica e pubblico, come un lavoro rivoluzionario, non fa altro che proseguire la lenta evoluzione della band. Le novità consistono principalmente nell’aggiunta di qualche elemento progressivo, soprattutto per volere di Iommi, il musicista più aperto alla sperimentazione del complesso.

I pezzi risultano così dilatati, superando spesso i cinque minuti e in un caso gli otto. Nonostante l’aggiunta del mellotron, suonato dallo stesso Tony, e di una ballata come Changes, complessivamente il suono rimane quello cupo degli altri dischi. Del resto, la band non era nuova a pezzi più riflessivi, come la splendida Solitude del lavoro precedente.

Inoltre, nel 1972 il rock progressivo vive forse la sua stagione d’oro, inevitabile che un gruppo di grande successo e di ottima tecnica come i Black Sabbath se ne lasciasse influenzare. Anche i Deep Purple e i Led Zeppelin attingeranno, nel medesimo periodo, a qualche idea progressiva.

Vol. 4 esce nel settembre del 1972, il 25 per l’esattezza. Il lavoro è il quarto in appena due tre anni, segno che i ragazzi amano battere il ferro finché è caldo, e viene registrato a Los Angeles. Londra non ha certo nulla da invidiare né come tecnica né come ambiente, anzi. Tuttavia, la registrazione in America dà la misura di come i Black Sabbath siano, nel 1972, una band di grande successo e ancor maggiori investimenti.

I ragazzi, però, hanno un bel problema. Dopo anni passati a ispirarsi anche tramite alcol e droghe più o meno leggere, sono diventati veri e propri schiavi della cocaina. Secondo voci attendibili, mentre i Black Sabbath sono in studio, arrivano scatoloni pieni di polvere bianca, nascosta tra apparecchi tecnici. Ozzy Osbourne e compagnia sono talmente innamorati della sostanza che vorrebbero intitolare l’album Snowblind, proprio in omaggio alla neve, come viene chiamata la cocaina.

“Iniziai a chiedermi da dove arrivasse tutta quella coca… era la più bianca, pura, e forte roba che avessi mai immaginato. Una sniffata, e diventavi il re dell’universo.”

Ozzy Osbourne

Le case discografiche, però, fanno capire chiaramente che a tutto c’è un limite; la Vertigo in Gran Bretagna e la Warner Bros negli Usa sono nomi troppo importanti per cedere alle bizzarre fantasie di quattro ragazzi poco più che ventenni. Con uno slancio di fantasia senza precedenti, si opta per Vol. 4. Ozzy e soci l’hanno in parte vinta: Snowblind rimane il titolo di uno dei pezzi.

La copertina ritrae Ozzy Osbourne durante un concerto, con le braccia alzate in una posa quasi da santone e virata in un suggestivo effetto monocromatico. L’immagine, di per sé nulla di speciale, diventa negli anni iconica, tanto da essere parodiata e citata più volte.

La produzione è affidata a Patrick Meehan e agli stessi Black Sabbath.
L’apertura di Vol. 4 è per la lunga Wheels of Confusion, conosciuta anche come The Straightner. Qualche secondo di una chitarra elettrica quasi melodica, su un ritmo lento, il tempo di chiedersi se non si sia sbagliato disco da mettere sul piatto, e arriva il primo riff di Tony Iommi. E, come sempre, trattasi di un riff granitico, che fa da spietato sfondo alla voce di Ozzy.

Su un testo vagamente criptico e filosofico, si innestano diversi cambi di ritmo, per quello che è forse uno degli episodi più prog dei Black Sabbath. Il ritmo aumenta vertiginosamente con Iommi che si prende tutte le luci del protagonista; i temi si rincorrono varie volte, poi, poco dopo i cinque minuti, le carte cambiano totalmente. Una sezione del pezzo offre praticamente una nuova canzone, uno strumentale quasi psichedelico in cui Iommi dà fondo a tutta la sua tecnica.

La musica sfuma e subito parte un altro fenomenale riff, quello di Tomorrow’s Dream. Il pezzo, va detto, anticipa di quasi dieci anni tanti cliché di cui il metal anni Ottanta arriverà perfino ad abusare. Un ritornello quasi melodico prelude a un cambio di ritmo e all’assolo di Iommi, breve e duro.

Changes, la traccia successiva, spariglia di nuovo le carte, proponendo una bellissima ballata per voce, piano e mellotron. Il testo, malinconico e vagamente depressivo, è opera di Geezer Butler e cantato in modo magistrale da Ozzy Osbourne. Su un tema quasi melodico, Ozzy dimostra di saper cantare anche quando non c’è bisogno di spaccarsi l’ugola, mentre il mellotron, suonato da Iommi e Butler, dà un tocco di suggestione.

Un esperimento sicuramente ben riuscito.
La successiva FX mostra invece in poco più di un minuto e mezzo il lato più caciarone dei Black Sabbath; il pezzo, prettamente rumoristico, è una specie di burla, come la definisce Iommi, nata da una serata in cui è girato molto hashish e in cui gli strumenti vengono percossi con mezzi peculiari.

Si riprende subito il ritmo con Supernaut, pezzo dal ritmo sostenuto con un riff particolarmente duro e urticante. Il veloce assolo di Iommi pare quasi citare il suono di Ritchie Blackmore, uno dei grandi rivali del tempo. C’è spazio anche per Bill Ward e le sue percussioni, in un’inusitata sezione dai ritmi tribali. Il testo cita – come di moda all’epoca – temi inerenti al Superuomo di Nietzsche.

Si gira la facciata e parte la famigerata Snowblind, quella che inneggia alla cocaina. Una parte dei fan hanno in realtà ipotizzato che la neve del titolo faccia riferimento a L’Eternauta, fumetto degli anni Sessanta in cui la neve è composta da materiale radioattivo. Il pezzo, coca o no, è molto valido, un rock piuttosto lento con una bella sezione melodica all’interno.

Il suono della chitarra, quasi lamentoso nella ritmica, si risolleva per un assolo molto breve e incisivo.

Cornucopia è uno dei pezzi da novanta del disco, con un riff possente e inquietante che farà la gioia di generazioni di metallari. Il testo tratta il tema della tecnologia che prende il sopravvento e mette in discussione la sanità mentale dell’uomo: un tema quantomai attuale, verrebbe da dire. Al di là della durezza del riff, Bill Ward sfoggia un andamento ritmico della batteria quasi jazzato.

La seconda parte della canzone ricorda a tratti alcune atmosfere dei Led Zeppelin del periodo, cosa difficilmente riscontrabile nel canzoniere dei Black Sabbath.

Laguna Sunrise sovverte completamente le atmosfere. Si tratta di un breve strumentale di Tony Iommi per chitarra acustica e orchestra, nato dopo aver osservato l’alba a Laguna Beach. Inizialmente, l’orchestra convocata si rifiuta di suonare sul brano, a causa dell’assenza di una vera partitura.

Anche St. Vitus Dance, nei primi secondi, pare presa dal repertorio di Led Zeppelin o Deep Purple, con un andamento veloce e quasi sbarazzino. Tuttavia, in modo quasi dissonante, si inserisce a tratti un riff in perfetto stile Tony Iommi. Il brano finisce per risultare piuttosto bizzarro, anche per la sua brevità.

La chiusura di Vol. 4 spetta a Under the Sun, epica cavalcata proto-metal.
Il pezzo a un certo punto riprende il riff di Flight of the Rat dei Deep Purple, brano di un paio di anni prima, tratto da In Rock. Omaggio o plagio, magari involontario? Certo è che anche l’assolo di Iommi è particolarmente in stile Blackmore. Gli ultimi due minuti, con un rallentamento di ritmo e una lunga parte di chitarra elettrica, sono una vera goduria.

Vol. 4 vende benissimo e ancora oggi è ritenuto a buon diritto un pezzo forte del primo periodo dei Black Sabbath, ovvero del loro miglior momento. Rolling Stone lo ha inserito nella Top 100 degli album metal, al quattordicesimo posto. Ci sarà ancora spazio per bei dischi, nel futuro dei Black Sabbath, a partire dal 1973 e da Sabbath Bloody Sabbath; eppure, Vol. 4 è forse il disco che chiude la loro fase più esaltante.

— Onda Musicale

Tags: Deep Purple, Ozzy Osbourne, Geezer Butler
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