…Very ‘Eavy …Very ‘Umble compare nei negozi di dischi il 13 giugno del 1970 ed è l’opera prima di una band sconosciuta. I cinque ragazzi londinesi si fanno chiamare Uriah Heep, come l’odioso antagonista di David Copperfield, il romanzo di Dickens.
A volte, scrivere recensioni porta in sé una grande responsabilità: ne sanno qualcosa proprio gli Uriah Heep che, pur vantando un’eccezionale carriera, pagheranno sempre il giudizio affrettato dato al loro primo album da Rolling Stone.
“Se questo gruppo sfonderà, io mi suiciderò. Fin dalla prima nota, capisci di non volere sentire oltre.”
Melissa Mills, Rolling Stone
Le parole, non proprio felici, sono di Melissa Mills, all’epoca critica musicale di Rolling Stone. Certo, verrebbe da dire che oggi gli Uriah Heep sono ancora sulla breccia; o magari che hanno venduto milioni di dischi e riempito centinaia di stadi. E invece, Melissa Mills chi la conosce, se non per la sua evitabile polemica? Quel giudizio così tagliente – e immotivato – fin da subito marchia la musica della band.
Gli Uriah Heep, pur con le differenze del caso, potrebbero forse dar filo da torcere al triangolo dell’hard rock britannico, quella sacra trimurti costituita da Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath; invece, il loro hard rock venato di pop, prog e heavy metal, rimarrà sempre un po’ sfumato ai bordi della grande scena, quella osannata da pubblico e critica.
La storia degli Uriah Heep inizia con una band che si chiama The Stalkers; qui suonano sia David Byron, vocalist dal grande talento e dal timbro duttile, e Mick Box, chitarrista dalla tecnica non troppo raffinata ma dal grande feeling. Quando il gruppo si scioglie, i due formano gli Spice, col bassista Paul Newton e il batterista Alex Napier. Il produttore Gerry Bron li nota e insiste per collaborare, favorendo l’introduzione di un tastierista.
La scelta cade su Ken Hensley, vecchia conoscenza di Gerry. Ken pare uscito da una comune hippie: capelli lunghissimi, vestiti da figlio dei fiori e una grande ispirazione poetica. Ken, però, ci sa fare sia come vocalist che come organista; non solo, all’occorrenza imbraccia con profitto pure la chitarra.
![](https://www.ondamusicale.it/wp-content/uploads/2022/06/Uriah_Heep_1st_2-1024x576.jpg)
Mutato il nome in Uriah Heep, la band inizia a lavorare al primo album. Quando Ken entra nel complesso le cose sono già piuttosto avanti, tanto che il suo contributo compositivo, in verità piuttosto decisivo, arriverà solo dal secondo album. …Very ‘Eavy …Very ‘Umble è comunque un disco di buona qualità che, ascoltato oggi, risulta ammantato quasi da un alone di leggenda, favorito dall’effetto nostalgia verso certi suoni.
I difetti non mancano, a partire dall’artwork in stile horror che poco ha a che fare coi suoni e che risulta non proprio accattivante. Il cantante David Byron presta il volto alla foto, sfoggiando una posa da horror della Hammer e col viso avvolto da ragnatele. Inoltre, il sound non è ancora molto compatto, mostrando una direzione musicale abbastanza incerta sulla rotta da seguire.
Formidabile è però l’attacco di Gypsy, pezzo che rimane un cavallo di battaglia dal vivo, specie nei bis, per tutta la lunga carriera del gruppo. L’inizio è contrassegnato da un sulfureo riff dell’organo di Hensley, a cui si aggiungono uno alla volta gli altri strumenti. Tra vari stop dalla tipica impostazione prog e un andamento quasi marziale che ricorda i Deep Purple, parte poi un altro riff che fa da sostegno alla parte cantata. La voce di Byron è adattissima al genere, espressiva e pronta a salire in alto con un falsetto da manuale heavy.
Emerge poi un’altra caratteristica tipica degli Uriah Heep, quella di alternare certe armonie vocali tipicamente british ma che suonano peculiari in ambito hard. Lo faranno anche i Deep Purple, ma all’epoca la band di Ritchie Blackmore è ancora ben lontana dal successo. Difficile, dunque, dire chi si sia ispirato a chi. La parte centrale è appannaggio di una cavalcata all’organo di Ken Hensley.
Il tastierista non vanta magari la tecnica dei colleghi prog o di Jon Lord; tuttavia, la sua furia, il suo alternare passaggi furenti a carezze e il suo ottimo feeling, rendono il suo stile inconfondibile. Gli ultimi trenta secondi sono all’insegna di una sfrenata sarabanda ai limiti del free, in cui ogni strumento suona per i fatti suoi. All’epoca, tentare di strafare era un po’ la regola.
Walking in your shadow è un brano molto centrato, di nuovo basato su un bel riff, stavolta condotto dalla chitarra. La voce è al limite del soul-blues e ricorda, a tratti, quella di Jack Bruce dei Cream. Il ritornello si apre inaspettatamente quasi alla melodia, con un risultato che si avvicina di nuovo ai Deep Purple. Mick Box sciorina un lungo assolo di chitarra, mettendo per la prima volta in mostra il suo stile senza fronzoli.
La successiva Come away Melinda abbassa toni e ritmi, arrivando in modo inaspettato. Si tratta infatti di una ballata antimilitarista, suggestiva e di grande effetto, ma ad alto rischio di stucchevolezza.
Pochi lo ricordano, ma la canzone è una cover di un brano americano inciso per la prima volta nel 1963, nientemeno che da Harry Belafonte. La resa degli Uriah Heep è comunque encomiabile, sebbene in seguito della canzone si sia persa ogni traccia, specie nei concerti. Un esperimento legato all’epoca e all’incerta direzione artistica del complesso.
Stesse considerazioni si potrebbero azzardare per la successiva Lucy Blues. Siamo in un periodo in cui la massima espansione del British Blues è appena superata, e quasi tutte le band hanno in repertorio qualche brano in dodici battute. Gli Uriah Heep non fanno eccezione e sfoggiano questo slow blues, molto riuscito in verità, ma poco omogeneo nel disco e – soprattutto – nel futuro suono.
L’impostazione è quella del blues pianistico, con Byron che sfoggia una prestazione estremamente credibile. Lungo e piacevole l’assolo di organo Hammond di Hensley, meno azzeccato e fin troppo basico quello di chitarra.
Si volta il vinile e parte Dreammare, annunciata da un sussurro d’organo, ma che presto svela la sua natura aggressiva. Sul lavoro di Mick Box alla chitarra, quasi protoheavy, si innesta la parte cantata, che rimanda a un certo rock psichedelico britannico. Siamo ancora dalle parti dei primi Deep Purple, con un coretto “la la la la” che pare fatto apposta per essere cantato negli stadi. Notevole la sfuriata chitarristica di Box, con lo strumento particolarmente distorto.
Real Turned On vanta uno stupendo attacco tra hard e heavy della chitarra di Mick. Stavolta Ken Hensley lascia l’amato organo e si cimenta con la chitarra slide, andando a doppiare, e a smussare, le spigolose e aggressive trame di Box. L’andamento anticipa molti cliché del metal britannico che verrà e il duello chitarristico dona davvero una suggestione piacevole. Un brano forse poco conosciuto ma davvero meritevole di riscoperta.
I’ll keep on tryin’ è una lunga ed epica cavalcata con toni apocalittici di stampo progressivo. I cambi di ritmo sono diversi e la prestazione vocale di Byron davvero notevole; i continui intermezzi con un coro in falsetto danno un tocco inquietante al tutto, fino a un intermezzo dove l’atmosfera si calma, forse fin troppo.
I toni tornano però presto a salire con un lungo assoli di chitarra in cui Box abusa del wah-wah e del distorsore. Un pezzo, insomma, che rende giustizia alle qualità tecniche degli Uriah Heep, spesso messe in secondo piano a favore dei colleghi più blasonati.
C’è ancora spazio per Wake Up (Set Your Sights), brano dall’andamento quasi jazzato e ancora sfondo per una bella prestazione di David Byron. Il cantante, va detto, ha spesso vanificato il suo grande talento con uno stile di vita eccessivo che ne limitava le prestazioni, specie in concerto. Tuttavia, quando era in piena forma, Byron temeva davvero ben pochi rivali.
L’ultimo brano va avanti tra continui cambi di ritmo e un’atmosfera a tratti quasi da musical e al limite dello swingante. Una chiusura forse leggermente pretenziosa, per una band all’esordio, ma che tutto sommato ben rappresenta questo …Very ‘Eavy …Very ‘Umble.
Ci vorranno appena otto mesi per Salisbury, l’opera seconda degli Uriah Heep, un lavoro sicuramente più organico dell’esordio e meglio riuscito. Tuttavia, l’album di debutto rimane ad oggi un disco che fa già presagire il grande talento di uno dei complessi più importanti dell’hard rock britannico.