Chissà cosa devono aver pensato, nel 1978, quando il nome di Kate Bush è apparso sugli scaffali dei negozio di CD sulla copertina del suo debutto, The Kick Inside. A cominciare da quella voce stridula, da bambina, che canta emozioni che di infantile non hanno niente, e che quando meno te lo aspetti si produce in gorgheggi tanto raffinati quanto stravaganti.
Ma anche i testi melodrammatici, struggenti, ma mai troppo lontani dalla realtà per non coglierne almeno uno spicchio negli angoli, in cui ogni sentimento viene ribattuto, ric(hi)amato e goduto fino all’ultima goccia. E quel sound ricercato, luccicante, inconfondibilmente barocco che per decenni, oggi più che mai, uno stuolo crescente di discepole si premura di richiamare. Il suono di una donna in boccio, dei suoi pensieri, delle sue (molte) passioni e dei suoi (ancora di più) tormenti, agli sgoccioli dell’abbandono disilluso degli anni settanta e agli albori della sperimentazione degli anni ottanta, in cui il rapporto tra la musica e l’artifizio espressionista diventa quasi una regola.
Certo, non si può dire che Katherine Bush, al suo debutto all’età di vent’anni, fosse partita da niente
Quando realizza The Kick Inside ha dalla sua una squadra di stelle nella cabina dei produttori, alle quali era stata avvicinata da una fortunata Catena di Sant’Antonio tra lei, i suoi fratelli musicisti, il loro amico “nell’ambiente” Ricky Hopper e l’amico di lui, un certo David Gilmour ancora militante nei Pink Floyd. Si può però cogliere il fiuto dello stesso Gilmour, che scelse di sollevare dall’anonimato proprio quella strana ragazza in base innanzitutto alla sua scrittura. A lei si aggiunge solamente l’apporto produttivo – spiccano il vivace organo in James and the Cold Gun e gli strambi assoli di sassofono in, beh, The Saxophone Song, con i quali Bush si balocca come se fossero essi stessi la voce di qualche corista – che rimane, alla fine delle cose, soltanto la cornice di una lunga serie di immensi quadri emotivi.
Il grande amore di una giovane donna, tutto da provare
Dai suoi giovani occhi, e con i garbati crescendo che le regala l’orchestra alle sue spalle, Kate Bush descrive un’esperienza barocca come il genere di musica, dove il dolore brucia dieci volte tanto e ogni gioia si trasforma in estasi. Oh To Be In Love spicca su tutte, proprio per la sua semplicità: è semplicemente la cantante che si crogiola in una grande cotta, ma le immagini che utilizza. A questo si aggiunge il contrasto tra il baritonale coro maschile e i cinguettii di Bush, una delle trovate più efficaci dal punto di vista puramente sonoro.
A farsi conoscere sono però le tracce con più sfumature, in cui la messa a nudo emotiva di The Kick Inside sfoga il lato oscuro del vivere una passione così forte
Quel dolore femminile che Bush estetizza, drammatizza, dipinge di mille colori e soprattutto accetta, in tutte le sue sfumature brutte, pasticciate e strane. Un’esperienza non ostile all’aperta resistenza delle guerriere del rock, le Joan Jett e Patti Smith che sfidano faccia a faccia lo sciovinismo maschile e la sua sgradevole presa sul mondo del rock, ma parallela. Il dolore esiste, si accoglie e si ammette, perché la vita va così. È fatta di emozioni, e non tutte possono far bene. Ma si va avanti, perché i bei momenti arrivano e vanno apprezzati. In Feel It, Bush realizza un vero e proprio sogno erotico senza promessa di domani, e non c’è alcun mistero di cosa stia accadendo. “The glorious union, well, it could be love/but it could be just lust, but it will be fun”.
La tragedia di Catherine Earnshaw e delle donne tutte
La possibilità di chiudersi in sé stessa viene presentata e ponderata in Them Heavy People, ma messa eventualmente da parte: non è così che deve andare. Bisogna vivere, provare, accogliere – e Bush, a differenza di una Swift o Rodrigo (legittimo: altri tempi, altre situazioni) non è mai furiosa e vendicativa. Tranne quando interpreta la quasi omonima Catherine Earnshaw di Cime Tempestose in Wuthering Heights: un personaggio preesistente, creato da un’altra persona. È lei, non Kate Bush, a parlare di guerra persa, di gelosia, e implorare il suo Heathcliff di venire a scaldarla.
Se c’è un personaggio di Cime Tempestose che rassomiglia alla Kate Bush di The Kick Inside è Isabella Linton, la cognata di Catherine che subisce le angherie di suo fratello Hindley
Isabella che ama, subisce, patisce, perde, scappa, impara, e soprattutto ce la fa. E non a caso Bush canta in Room For The Life, “Vi piaccia o no, torniamo sempre in piedi/perché noi siamo donna/non moriamo mai a lungo”. La canzone, spesso scambiata per un inno femminista, è in realtà – a detta di Bush stessa in un’intervista del 1980 – un invito ad “andarci più leggere con gli uomini”. Non perché non ci sia bisogno di battaglie, ma perché, almeno nel mondo privato della giovane Bush, bisogna innanzitutto preoccuparsi di sé stesse. Dell’andare avanti, dei propri progetti, e del rendere migliore la nuova generazione. Quando anni dopo, in Running Up That Hill (A Deal With God), avrebbe espresso al suo uomo di volerlo far vivere nel suo corpo per capire la sua esperienza sociale, è diventata chiaramente un’altra persona.
Come Kate Bush dipinge “quadri di realtà”
L’arma più affilata nell’arsenale di The Kick Inside è il sarcasmo, che si profila nella trascinante James and the Cold Gun. Ed è così che il dramma romanzesco di cui Kate Bush si fa menestrella si combina con una potenziale murder ballad, in cui la morte del compagno della narratrice (la scorned woman Genie, che lo attende tutta sola in un triste letto vuoto) è un monito non solo contro la violenza – legata sottilmente al colonialismo western con l’immagine della buckskin, la pelle di daino usata nel Selvaggio West per gli indumenti invernali – ma anche contro la mascolinità tossica in toto. È semplicemente logico che un cowboy donnaiolo che preferisce fare gazzarra con gli amici e giocare a chi spara più lontano finisca morto, e nonostante non è ancora successo, per Kate Bush è un dato di fatto. Ma si sa, chi è causa del suo mal…
Si tende a dimenticarselo, quando si ascoltano artisti vintage, ma così stanno le cose in The Kick Inside
Kate Bush è una giovane, prima di tutto, e la sua fame di vita e di esperienze è quella di tutti i giovani insieme. Quello che rivendica più di ogni altra cosa con The Kick Inside è la possibilità di raccontare i suoi pensieri senza preoccuparsi di renderli meno sciocchi o depurarli del loro naturale, normalissimo melodramma. Raccontare storie di fantasia, anche di altri (la title track, si ricordi, è la lettera d’addio di una ragazza che, invaghitasi del proprio fratello, decide di togliersi la vita per la vergogna e il timore di una gravidanza) senza tema di cringe o di distacco dalla realtà. Una realtà che si estetizza, si ricolora e si ricostruisce, ma alla quale si può ritornare come persone cambiate: portando con sé nuove esperienze e, in questo caso, un grande debutto pop.