Vent’anni fa ha rischiato di morire e ora con i suoi Depeche Mode non vuole più perdere tempo. Intervista, alla vigilia di un album visionario e di un tour già sold out. E che arriverà anche a Roma, Milano e Bologna.
«Evidentemente non era ancora il mio momento». Si ferma. La risata è fragorosa e liberatoria. Una liberazione iniziata vent’anni fa. Il cuore di Dave Gahan si fermò per due minuti il 28 maggio del 1996. Overdose da speedball, cocaina ed eroina insieme. La location era puro rock’n’roll. Il Sunset Marquis Hotel di Los Angeles, dove Courtney Love nel 1995 tentò il suicidio lasciando un biglietto di addio indirizzato alla figlia e al marito Kurt Cobain, morto l’anno precedente.
Lì dove al bancone dell’hotel, il Whisky Bar, capitava di vedere James Caan che divideva Gary Oldman e Don Johnson mentre facevano a botte. Gahan era reduce da un divorzio e da un tentato suicidio ed era una delle più grandi rockstar del pianeta con la sua band, i Depeche Mode. Ma evidentemente non era ancora arrivato il suo momento. «Ho avuto questo grande privilegio» racconta oggi, a 54 anni. «Lì ho capito che stavo distruggendo la mia vita e che non era quella la strada da seguire.
Ricordo di aver sentito che stavo scivolando in un luogo di buio completo. È stato terrificante. Ma subito dopo c’è stata una spinta in senso contrario che mi riportava su. Era come se in quel momento qualcuno stesse prendendo una decisione per me. O forse la stavo prendendo proprio io».
Vent’anni dopo i Depeche Mode sono vivi e vegeti. Il nuovo album, Spirit, il quattordicesimo di una storia iniziata più o meno quarant’anni fa sui banchi di una scuola di Baseldon, Essex, segna il ritorno in grande stile di una band che continua a coniugare in modo unico e spettacolare elettronica e rock. Il nuovo tour li porterà anche in Italia a giugno (il 25 a Roma, Stadio Olimpico, il 27 a Milano, San Siro, e il 29 a Bologna, Stadio Dall’Ara). I fantasmi e i demoni che allora tormentavano Gahan ora sono diventate le preoccupazioni di un padre di famiglia che vede il mondo sofferente. E, deluso ma arrabbiato, canta nel primo singolo dell’album: Where’s the revolution.
Che rivoluzione vorrebbe, Gahan?
«È la grande domanda. Noi con la canzone la rivolgiamo a voi. Dovremmo smettere di alimentare certe stronzate che servono solo a convincerci ad aver paura di tutto. C’è un sacco di gente lì fuori che vorrebbe distruggere questo mondo. Noi possiamo reagire in due modi: partecipare alla distruzione o fare la rivoluzione imparando a convivere, prendendoci cura delle cose e delle persone».
Dopo l’elezione di Donald Trump gli U2 hanno deciso di archiviare l’album che stavano realizzando perché gli eventi lo avevano sorpassato. Voi a che punto eravate con Spirit?
«La maggior parte dell’album è stata composta e registrata molto prima dell’elezione. Ma l’atmosfera in America, dove vivo da anni, era chiara da tempo. Tutto il 2016 lo abbiamo passato ascoltando un sacco di sciocchezze. Da entrambe le parti, in realtà. Non ne potevo più. La gente farebbe qualsiasi cosa per vincere le elezioni. Ma conta soprattutto quello che fanno dopo. E per ora non vedo niente di positivo in quello che Trump sta facendo per il Paese, ormai diviso in due».
Eravate tentati dall’idea di realizzare un album politico?
«No, non concepisco la musica con intento politico. Questa è una collezione di brani con immagini importanti associate alla musica. Dipende dall’ascoltatore capire cosa farne. Personalmente qualsiasi tipo di arte può ispirarmi a reagire: pittura, musica, film, fotografia. Vorrei che la nostra musica facesse lo stesso effetto, ispirasse le persone a fare chiarezza nelle loro teste, a capire quale è il loro scopo sulla terra. E magari ad agire di conseguenza. Perché tutti sono bravi a chiacchierare, ma non basta».
L’altro grande tema dell’album è la spiritualità.
«Perché è lo spirito che muove la musica e che fa succedere le cose… come quando incontro qualcuno per strada e, parlando, riesce a smuovere qualcosa nel profondo. È lo spirito che agisce in quel momento. Mi succede anche quando viaggio. Suonerà come un cliché raccontarlo a un giornalista italiano, ma quando sono in Italia io questo spirito lo sento, ovunque, in qualsiasi cosa, nel cibo, nella gente, nella lingua, quando salgo sul palco».
La religione che ruolo ha in tutto questo?
«Non seguo nessuna religione in particolare. Da bambino sì, quando mi obbligavano ad andare a messa. Ma trovo i dogmi troppo severi, o per lo meno lo erano per me. Da piccolo ne ero impaurito invece che ispirato. Capisco il motivo per il quale in molti si riconoscono nelle religioni, ma per me anche stare in compagnia della mia famiglia e dei miei amici è un’esperienza spirituale».
Quanto ha influito sulla sua spiritualità l’episodio di vent’anni fa, quando rischiò di morire?
«Incredibile, già sono passati vent’ anni! Diciamo che ha avuto un impatto molto profondo su di me. Ma per rialzarmi c’è voluto veramente tanto tempo e tanta energia, e anche molto aiuto da parte delle persone a me vicine. Ho capito che sono queste le cose importanti. E invece le avevo messe da parte».
Cosa direbbe oggi al Dave Gahan di allora?
«Gli direi: non prenderla troppo sul serio, amico mio! La vita è breve, lo è davvero, in un attimo è passata. Lo scorso anno abbiamo perso una persona che per me era molto importante, David Bowie. Avevo avuto modo di conoscerlo un po’ perché le nostre figlie andavano a scuola insieme qui a New York. La sua scomparsa è servita a dirmi: fai quello che davvero vuoi nella vita. Se sei così fortunato da poter fare musica e arte, fallo. Lui ha fatto così tutta la vita, collaborando con un mucchio di persone diverse, immerso nella voglia di creare, fino alla fine. Vorrei aver avuto la possibilità di vederlo di nuovo prima della sua scomparsa».
I Depeche Mode lo hanno omaggiato con una registrazione dal vivo di Heroes, ancora inedita.
«Sì, lo scorso anno ci siamo esibiti, senza pubblico, in uno studio di New York, l’High Line, ripreso con telecamere a 360 gradi. Abbiamo eseguito cinque o sei canzoni del nuovo album e poi Heroes. È stato emozionante. Spero che la gente possa vederlo presto. Per me è stato un modo anche per dirgli grazie per tutto quello che ha fatto».
In Italia avete sempre avuto un grande seguito. Vi sono mai arrivate richieste di collaborazione?
«Non credo, ma magari il mio management ne sa di più. Non faccio molte collaborazioni, e a dirla tutta sono parecchio choosy. Ma sono contento di aver lavorato con i Soulsavers negli ultimi due album che abbiamo realizzato insieme, e spero accada di nuovo. E sono molto contento anche del concerto che ho fatto con loro a Milano lo scorso anno. È stato uno dei miei preferiti del tour».
Un artista italiano, vostro grande fan, Morgan, con la sua band Bluvertigo aveva anche realizzato una cover di Here is the house (diventata Complicità)…
«Ah sì? Interessante, devo ascoltarla».
Che deve aspettarsi il pubblico dal nuovo tour?
«Stiamo facendo le prove proprio ora, partiremo a maggio dalla Svezia. In scaletta ci saranno sei o sette canzoni di Spirit, ma non riesco a immaginare di non suonare brani come Enjoy the silence, Personal Jesus, Walking in my shoes, I feel you. Sarebbe come se i Rolling Stones non suonassero Satisfaction!».
Molti dicono che il suo modo di ballare ricorda proprio quello di Mick Jagger.
«Credo di aver preso elementi da vari performer. Sicuramente Mick Jagger è uno di loro. Ci vuole una tale quantità di energia per esibirsi così ancora oggi. Non so come ci riesca. Sono sicuro che alla fine di ogni show si sdraia in una vasca di ghiaccio. E poi c’è Bowie. E indietro fino a James Brown, ma anche Nick Cave».
C’è un momento topico nei concerti dei Depeche Mode: quando, a fine concerto, durante Never let me down again, tutto il pubblico alza le mani in aria e lei le guida da una parte all’altra creando un’enorme onda. Come è nato?
«Un po’ per caso. Molti anni fa eravamo in tour negli Usa, credo in Texas, e ho visto qualcuno del pubblico con le mani alzate, allora l’ho seguito anche io e dopo un po’ tutti avevano le mani in aria. Un mare di mani. E ho iniziato a muoverle e gli altri con me. Da allora è diventato un appuntamento fisso».
Ha mai pensato di fare l’attore?
«Ogni tanto. Il mio più grande rimpianto risale a quando vivevo ancora a Los Angeles, molti anni fa. Mi proposero un piccolo ruolo in un film scritto e diretto da un regista emergente. Si chiamava Quentin Tarantino. Il ruolo era quello che ha poi interpretato Tim Roth in Pulp Fiction, il rapinatore nel ristorante che si vede all’inizio e alla fine del film. All’epoca ogni tanto provavano a propormi qualcosa. Ma non era roba per me. Però ripensando a quest’offerta poi mi sono detto: “Beh, forse almeno quella avrei dovuto accettarla”».
(fonte: di G.Santoro – www.repubblica.it)
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