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Oasis: (What’s the story) Morning Glory e la storia del Brit-Rock

Oasis, la copertina

All’inizio del mese di ottobre del 1995 esce un disco che segna la storia di tutto il decennio, il più importante di tutto il movimento del Brit-rock. Il disco è (What’s the Story) Morning Glory? e loro, ovviamente sono gli Oasis.

Quando (What’s the Story) Morning Glory? arriva nei negozi, gli Oasis hanno già al loro attivo un album, Definitely Maybe, che li ha resi l’ennesima next big thing della Gran Bretagna. Il concetto di next big thing sta in piedi più o meno dai tempi dei Beatles; da allora, a cadenza regolare, il mercato anglosassone si inventa il nuovo, grande fenomeno.

A volte i discografici ci prendono, altre no, fatto salvo che i Beatles non sono replicabili. Nel caso degli Oasis, il fenomeno è reale. Ma facciamo un passo indietro.

Le radici degli Oasis sono da ricercare a Manchester, precisamente nel quartiere di Burnage. L’antica Magna Castra romana, famosa per le industri tessili, vede infatti la nascita dei Rain, complesso che si forma verso la fine degli anni Ottanta. Inizialmente il gruppo è composto da Paul McGuigan al basso, Paul Bonehead Arthurs alla chitarra, Tony McCarroll alla batteria, e Chris Hutton, la voce.

Quando Hutton abbandona, McGuigan si ricorda del suo compagno di classe Liam, belloccio scontroso dalla dizione improponibile e dalla voce caratteristica. Liam viene da una famiglia che non è certo il quadretto idilliaco degli spot del Mulino Bianco: il padre è un alcolizzato violento e la madre – nel 1984 – scappa portando via i tre figli.

Il fratello di Liam, Noel, è un bravo chitarrista che lavora come roadie al seguito degli Inspiral Carpets. I due fratelli hanno un rapporto turbolento, come la loro vita di adolescenti che scorre tra risse e furtarelli. La band, con Liam alla voce, trova una buona qualità, ma non riesce a sopperire al problema di fondo, la poca capacità compositiva.

Quando Noel torna a casa, Liam gli propone di fare da manager al gruppo.
Il fratello maggiore replica che la band gli fa schifo, ma che vorrebbe diventarne il leader, signore e padrone. Inaspettatamente, i Rain accettano.
Inutile precisare che Liam e Noel fanno di cognome Gallagher, e che quel giorno nascono gli Oasis.

Dopo una lunga gavetta fatta di serate per locali, lunghi viaggi su mezzi di fortuna, liti e problemi con la legge, gli Oasis firmano con la Creation (etichetta legata alla Sony). Defintely Maybe sfonda fin da subito: vengono estratti quattro singoli e gli Oasis sono la band del momento. Il mloro sound, debitore agli Stone Roses, è grezzo e diretto, i testi parlano alla pancia della classe operaia di Manchester.

L’approccio, poi, è già quello delle rockstar fracassone, sbruffone e ad alto tasso d’alcol e arroganza. A dicembre del 1994 esce il singolo Whatever, singolo ponte tra il primo e il secondo album, addolcito da una ruffianissima sezione d’archi e che gira tanto in radio. La canzone, però, sarà sempre un po’ snobbata dagli stessi Oasis, forse perché ruba l’intro a How Sweet to be an Idiot di Neil Innes.

Le due canzoni sono tanto simili che Neil fa causa al gruppo, vincendo e assicurandosi una lauta pensione.

L’esplosione vera e propria sta però per arrivare.
(What’s the Story) Morning Glory?, a far crescere un hype senza precedenti, è anticipato da ben tre singoli. Some Might Say è la prima numero uno del gruppo, Roll with it segna l’inizio dell’epica guerra coi Blur, in questo caso persa. A settembre arriva Morning Glory, ma il meglio è ben nascosto nell’album che uscirà il 2 ottobre.

Il titolo del disco, che tanto ha fatto almanaccare, deriva da un verso del musical Bye Bye Birdie. L’ispirazione a Noel venne quando una sua amica, Melissa Lim, gli rispose al telefono pronunciando la frase. La foto di copertina, che non ritrae Noel e Liam come molti pensano, ma due ragazzi comuni, viene scattata a Berwick Street, più precisamente davanti al negozio Sister Ray.

L’attacco dell’album è per Hello, preceduta da una breve intro in dissolvenza con gli accordi di Wonderwall, che arriverà tra un po’. Il pezzo si presenta come la classica tirata grezza e rock’n’roll da pub della working class hero. Quella working class tutta birra e Premier League di cui gli Oasis degli inizi cantano il riscatto.

Tra chitarre distorte e le vocali aggrovigliate di Liam, non si commetta però l’errore di sottovalutare questo primo approccio. Sono infatti già presenti tutti i pregi (e i difetti) del Noel compositore: gli accordi di una semplicità quasi sospetta e i meravigliosi ganci melodici, degni dei Kinks.

Roll with it prosegue sulla stessa falsariga, un bel rock sostenuto e dall’andamento contagioso. La chitarra acustica cerca di farsi largo nel tipico muro di suono alla Oasis, mentre Noel fa sentire la sua voce nei controcanti. Il pezzo, pompato a dovere nella guerra coi Blur, nulla può però contro l’accattivante Country House dei rivali, uscendo sconfitta seppure di misura dallo scontro dei 45 giri.

Il tempo della dissolvenza ed ecco partire i quattro accordi che proiettano Noel e soci nella leggenda del rock: Wonderwall. Capita raramente che una canzone abbia tutti gli ingredienti perfetti e al posto giusto: si può ben dire che questo sia uno di quei casi. La progressione degli accordi, pare dovuta alla scoperta del capotasto da parte del giovane Noel, il ritornello, la voce di Liam, non c’è un solo ingrediente fuori posto.

Perfino il titolo, che doveva essere Wishing Stone, trova la sua fortuna con la parola Wonderwall, apparentemente priva di senso e che Noel ricorda così:

“Non so da dove provengano gli accordi e ricordo la cosa di Harrison. Ricordo che you’re my wishing stone non suonava bene. Dove abitavo avevo un poster di Wonderwall. E così pensai: You’re my wonderwall. Porca troia! Suona fantastico. Nessuno saprà cosa significhi.”

Proseguendo in un’accoppiata irripetibile, arriva la ballata migliore della carriera della band, Don’t look back in anger. Il brano, corredato da un video che più british non si può, col grande attore Patrick McNee, è a metà strada tra un pezzo dei Beatles, dei Kinks e di qualche band glam.

La progressione di accordi, pur sentita mille volte, è perfetta per fare da sfondo alla prima grande prestazione di Noel alla voce. Perfino l’assolo di chitarra, non proprio la specialità della casa, diventa iconico, a dimostrazione che la tecnica ruspante di Noel può comunque dare i brividi, nel giusto contesto, quanto e più di quella di un qualsiasi guitar hero.
Un brano sostanzialmente perfetto.

Si tira un po’ il fiato con Hey Now, altra ballatona a cui manca forse un po’ di nerbo, nonostante la bella melodia, e un pezzo strumentale, intitolato Untitled. E scusate il gioco di parole.

Arriva poi la bella Some Might Say, dall’attacco rock’n’roll alla T. Rex e una melodia azzeccata. Si tratta del primo singolo che aveva preceduto l’album e della prima assoluta degli Oasis in testa alle classifiche.

Segue Cast No Shadow, ballata dedicata a Richard Ashcroft, leader degli allora poco conosciuti Verve e compagno di scorribande degli Oasis. Di nuovo le due voci di Liam e Noel collaborano con grande efficacia, alimentando il rimpianto di quello che sarebbe potuto essere con due caratteri meno difficili.

Il pezzo scivola via che è un piacere. Quante band del genere avrebbero fatto carte false per una ballata di questa classe, all’epoca? Eppure, in (What’s the Story) Morning Glory? il brano fa quasi la figura del riempitivo.

C’è ancora spazio per She’s Electric, brano un po’ alla Kinks e che anticipa certe marcette future dei Fratellis, e per Morning Glory. Il pezzo, che dà il titolo al disco, è il terzo singolo e – pur mantenendo alta la qualità – non rimane particolarmente impresso, anche se anticipa il frastuono della produzione di Be here now.

Dopo un altro breve intermezzo strumentale, (What’s the Story) Morning Glory? si chiude con l’ennesima dimostrazione di una classe all’epoca superiore, Champagne Supernova.
La canzone viene scelta come ultimo singolo ed è accompagnata da un video in cui Liam pare un clone dell’idolo di sempre John Lennon.

La durata supera i sette minuti e il tutto è impreziosito dalla presenza di Paul Weller alla chitarra principale e ai cori. Il brano cresce lentamente, come struttura musicale, ma anche metaforicamente; infatti, nonostante sia l’ultimo singolo estratto, finisce per diventare un vero cult, oltre che uno dei pezzi più suonati nei concerti, dove Noel improvvisa alla chitarra una coda di oltre cinque minuti.

Si chiude così, con una dimostrazione di qualità incontestabile, l’album della vita degli Oasis. La guerra coi Blur è vinta, per quello che conta. (What’s the Story) Morning Glory? è forse l’album britannico più importante del decennio e pezzi come Wonderwall e Don’t look back in anger sono tuttora ostinati culti.

Il successo porta la band nel solito percorso di eccessi: tour infiniti e massacranti, liti interne e abusi di alcol e droga. Come per tante altre band, quando sarebbe il momento di rallentare, case discografiche e produttori decidono di pestare sull’acceleratore. Quando, meno di due anni dopo, esce Be here now, siamo ancora di fronte a una scrittura dei brani in stato di grazia.

Qualcosa, però, non va, ed è l’ego smisurato dei fratelli Gallagher. Nell’album successivo non c’è misura, proprio la caratteristica migliore di (What’s the Story) Morning Glory? Tutto è pompato all’eccesso, dalla produzione alla durata dei brani.
Ma questa è la storia di un altro disco, che vi racconteremo prossimamente.

— Onda Musicale

Tags: The Beatles, Blur, Noel Gallagher, Liam Gallagher, Paul Weller
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