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La nostra recensione di “Backspacer” dei Pearl Jam

Backspacer, il nono album dei Pearl Jam, ha compiuto 13 anni lo scorso 20 settembre.

Si tratta di un progetto dei Pearl Jam molto diverso dai precedenti, criticato all’uscita e tutt’ora molto discusso. Il sound grunge è quasi del tutto assente, sostituito da suoni a tratti più classici e composti da un’abrasività tipica del punk, che si alterna a melodie simili al recente lavoro solista di Vedder, Into The Wild.

L’album si apre con Gonna See My Friends, pezzo breve e veloce come i successivi, caratterizzato da un riff che rimanda subito a God Save The Queen dei Sex Pistols. Nonostante l’innegabile cambiamento, comunque, la band non si discosta troppo dagli argomenti che era solita analizzare: in questo brano pulsa una malinconia che sarà infatti il filo conduttore di tutto l’album, legando ritmi frenetici a ritmi più pacati.

Wanna leave it all / Wanna give it up / Wanna see it, gone once & for all / Wanna feel withdrawal / Want an overhaul / Wanna be there, hard as a statue / Black as a tattoo, never to wash away”

(Voglio lasciare tutto / voglio arrendermi / voglio vederlo fuori una volta per tutte / voglio sentire l’astinenza / voglio una revisione / voglio stare qui, rigido come una statua / nero come un tatuaggio che non si laverà mai via)

Prosegue con Got Some, un altro brano dai ritornelli ripetuti con minime variazioni, l’unico di questo progetto a ricollegarsi all’attualità, nello specifico alla nomina di Barack Obama alla Casa Bianca (gennaio 2009): «This situation, which side are you on? / Are you getting out or are you dropping bombs? / Have you heard of diplomatic resolve?», In questa situazione da che parte stai? Stai scappando? Stai sganciando bombe? Hai sentito della risoluzione diplomatica?

È abbastanza chiaro che Vedder, in questo periodo, sia soddisfatto della situazione politica e per questo meno interessato a parlarne nella sua musica, a differenza dei vecchi tempi.

The Fixer, il terzo brano, estratto come singolo, ottiene il secondo posto nella Billboard Chart. Gossard l’ha definito «una canzone pop» per la durata breve e la melodia di Cameron che Vedder ha riarrangiato fino al risultato attuale. Il pezzo ha riscosso un discreto successo, naturalmente tutti si chiedono: sarà per questa semplice – per non dire banale – vena pop? A me però viene in mente un’altra domanda: di canzoni ballabili ne sono pieni anche i Cure e Bowie – per fare solo qualche esempio –, vorrebbe forse dire che non è musica interessante (per non dire valida, altrimenti la discussione sarebbe infinita)?

Chi è questo «fixer», aggiustatutto?

Vedder si identifica con il protagonista della canzone, dicendo che una volta sperava davvero di cambiare il mondo con la sua musica, ma ora è abbastanza saggio da capire che è impossibile, al massimo può cambiare la sua comunità. Inoltre, aggiunge che la canzone può riferirsi anche a una comunità più ristretta, nello specifico a una coppia, e riflette sulla smania dell’uomo di «aggiustare tutto» quando la maggior parte delle volte non è possibile né necessario, tutto ciò che devono fare è solo ascoltare. È un promemoria per sé stesso, dice, per ricordarsi che non deve cercare sempre di aggiustare tutto.

Con Just Breathe torniamo a un sound più simile al suo progetto solista, appena ascoltato nel film di Sean Penn.

Vedder s’infila in una riflessione pregnante sul tempo che passa, non angosciosa come quella di Jonathan Larson nel suo Tik Tik Boom, ma quasi rassegnata: «Yes I understand / That every life must end / As we sit alone / I know someday we must go / Oh, I’m a lucky man / To count on both hands / The ones I love», Sì capisco che ogni vita debba arrivare a una fine, appena sediamo soli so che un giorno dovremo andarcene, sono un uomo fortunato a poter contare su entrambe le mani quelli che amo.

Quello di Vedder è forse un invito a godere di ogni piccola cosa, semplicemente respirare, appunto «just breathe».

«Hold me ‘til I die / Meet you on the other side» sono gli ultimi versi del brano, stringimi finché non muoio, ti vedrò dall’altra parte. La morte è quasi un lieto fine, perché vissuta con le persone che si amano. Un testo che rimanda al finale di Into the Wild, in cui Chris impara solo nella solitudine che una vita vissuta da soli è vuota e insignificante.

The End è un brano riflessivo e lento, gemello di Just Breathe anche nell’arpeggio iniziale. Anche qui il tempo ci perseguita.

What were all those dreams we shared / Those many years ago? / What were all those plans we made now / Left beside the road?”

(Cos’erano tutti quei sogni che abbiamo condiviso, così tanti anni fa? Cos’erano tutti quei piani che abbiamo fatto, ora rimasti indietro sulla strada?)

Nel ritornello la voce si spezza, Vedder abbraccia la malinconia che ha accompagnato tutto l’album per dare al finale un significato che non ci aspettavamo: questa corsa contro il tempo è un’agonia e pare non avere soluzione: «Help me see myself / Cause I can no longer tell / Looking out from the inside / Of the bottom of a well / It’s hell / I yell / But no one hears», Aiutami a vedere me stesso, perché io non ci riesco più a guardare fuori stando dentro un pozzo, sul fondo. È l’inferno, grido ma nessuno ascolta. Come anticipa il titolo, The End è una canzone sulla fine, sebbene non senza un po’ di speranza, ritornello tipico dei Pearl Jam: la speranza è nell’Aldilà, la morte infatti è solo l’ultima tappa di un viaggio.

In conclusione, abbiamo quindi di fronte un album che possiamo definire post-punk, condito con un pizzico di new wave.

Di circa 30 minuti complessivi, è il più breve e raccolto dei Pearl Jam, sicuramente il più veloce: diviso tra ritornelli urlati e brani introspettivi pregni di malinconia. Un album sperimentale che non ha incontrato il gusto di tutti i fan, ma che ai nostri occhi colpisce e contiene interamente l’anima dei Pearl Jam, una band adesso più matura e con diversi, più ampi, interessi.

— Onda Musicale

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