I Dr. Feelgood nascono in Inghilterra intorno alla metà degli anni Settanta attorno alle figure carismatiche di Lee Brilleaux e Wilko Johnson. La band è l’iniziatrice della brevissima stagione del Pub-Rock.
Alla metà degli anni Settanta, quando i Dr. Feelgood sono attivi già da qualche anno, la situazione del rock britannico è sul punto di implodere. Fin dai tempi dei Beatles, la scena rock ha conosciuto un continuo sviluppo, moltiplicando il successo e avendo come faro innovativo la Gran Bretagna.
Dal paese albionico sono infatti partite tutte le grandi rivoluzioni del pop degli anni d’oro. Dal beat di Beatles e Kinks al movimento mod degli Who, dal blues revival fino all’affermazione del rock progressivo, le tendenza sono sempre targate UK. L’ondata del prog, però porta velocemente la situazione a saturazione. Le band stanno diventando ormai ensemble paragonabili a piccole orchestre, i costi di registrazione di un disco e della strumentazione sono alle stelle.
Tutto ciò da un lato porta la qualità delle composizioni a vette inimmaginabili dieci anni prima, ma dall’altro finisce per allontanare il grande pubblico. Il rock’n’roll, nato da pulsioni semplici e alla portata di tutti tecnicamente, si sta trasformando in un freddo – per quanto sublime – esercizio stilistico.
A questo punto, insegna ogni buona storia del rock, arriva il punk a fare tabula rasa e a spazzare via le smanie intellettuali del prog. A preannunciarlo, il glam, che sfonda sia da questa parte che dall’altra dell’oceano. Pochi, però, parlano dell’importanza del Pub-Rock, un movimento che raggiunge la cresta dell’onda per un paio di movimentate stagioni. Ed è la cresta di un’onda che si erge comunque in acque basse, quelle del proletariato inglese.
Il movimento prende il nome proprio dai pub, luoghi che attirano torme di operai della working class. Tra palchi sgangherati, qualche spogliarello e fiumi di birra, avventori del tutto privi di interesse verso i barocchismi di King Crimson o ELP, sciamano in cerca di semplice, grezzo rock’n’roll per ammazzare il sabato sera. Capeggiati dai Dr. Feelgood, nascono una serie di complessi brutti, sporchi e cattivi.
Vestiti male e con una tecnica spesso elementare, questi gruppi si rifanno alla semplice energia originaria del rock, quello di Elvis e quello nero di Chuck Berry; i primi Rolling Stones e gli Yardbirds sono altri ispiratori, assieme al blues, quello più sporco e viscerale. La stampa paragona l’immagine dei Dr. Feelgood a quella dei delinquenti di The Sweeney, serie poliziesca ambientata nei bassifondi che all’epoca va per la maggiore.
L’Inghilterra dei Dr. Feelgood non è quella delle saghe di Re Artù o del raffinato movimento di Canterbury; Wilko, Lee e compagnia bella sono gli eroi delle periferie, di chi lavora in miniera o in acciaieria e vive in degradati quartieri popolari. Eppure, attraverso la loro piccola e misconosciuta rivoluzione, nascerà di lì a poco il punk, servendosi spesso delle piccole etichette del Pub-Rock.

Le registrazioni su disco, infatti, sono scarne ed essenziali. Se, da una parte, l’energia trascinante dei live dei Dr. Feelgood è sacrificata tra i solchi dei vinili, dall’altra il punto di pareggio tra spese e incassi si abbassa paurosamente, garantendo buon margine alle piccole etichette. Di lì a poco, il punk cannibalizzerà il fratello maggiore, distruggendo il rock alla base e gettando semi buoni e cattivi, da cui nasceranno la New Wave, il Dark, ma anche tanta sciagurata musica anni Ottanta.
I Dr. Feelgood nascono a Canvey Island, nell’Essex, nel 1971. Il moniker è rubato al titolo di un brano di Willie Perryman, ma allude anche ai medici che prescrivono certe sostanze. La band raccoglie quattro ragazzi dalla personalità dirompente, Lee Brilleaux, voce e armonica, Wilko Johnson alla chitarra, John B. Sparks al basso e John Martin alla batteria. I due John, soprannominati Sparks il primo e The Big Figure il secondo, garantiscono una sezione ritmica che pesta ossessivamente.
Lee Brilleaux è un cantante dalla voce roca e spigolosa e un buon armonicista. Il vero diamante pazzo è però Wilko Johnson, chitarrista dalla tecnica ruvida ma inimitabile e dalla presenza scenica schizzata e anfetaminica. Basta osservare qualche filmato dal vivo dell’epoca per rendersi conto della furia della band.
Ce n’è uno in particolare.
I Dr. Feelgood si esibiscono in una sorta di balera popolata da teenager in pullover che ballano sorridenti come fossero un corpo unico. Isolati su piccoli palchi tondi e colorati di rosso, i membri della band suonano al tempo stesso come se fossero entità a sé stanti e musicisti in simbiosi. Lee veste un improbabile completo scuro con camicia a righe, forse il più brutto outfit che si sia mai visto in scena.
Suda come un cammello sotto il sole del Sahara, si muove a scatti come un robot e tenta continuamente di allentarsi un nodo della cravatta grande come la testa di un labrador. Tutto nella sua mimica sembra anticipare un infarto sul palco, tanto la faccia e rossa e madida di sudore, e invece la sua prestazione è impeccabile.
Ma è la presenza di Wilko, quella che da sola vale il prezzo del biglietto. Elegantissimo in completo nero e zazzera alla Beatles, faccino pulito ma spigoloso alla Anthony Perkins in Psycho, Johnson misura avanti e indietro il suo piccolo spazio di scena. Cammina su e gù, Wilko, mettendo insieme qualche chilometro nella breve durata di She does it right, con espressione da sociopatico e la furia di chi fa colazione con le anfetamine.
La sua chitarra, però, suona che è un piacere, tra accordi con le corde rese mute dal palmo della mano e fill di una precisione fuori dal mondo. Un breve assolo con la Telecaster, anch’essa nera, e tutto è finito. Bruciano in fretta, i pezzi dei Dr. Feelgood, come accadrà alla band e al movimento che li vede apripista.
L’album d’esordio dei Dr. Feelgood viene registrato nel 1974, per essere pubblicato nel gennaio del 1975. Down By the Jetty, così si intitola, diventa il manifesto del Pub-Rock. Tredici pezzi secchi e veloci, quasi tutti composti da Wilko Johnson, che si prende anche il microfono in tre brani, per entrare nella leggenda minore del rock.
L’attacco è per She does it right, forse la loro canzone più emblematica. Si tratta di un classicissimo rock’n’roll dove la sezione ritmica pompa senza lasciare stampo all’ascoltatore. La chitarra geometrica e drogata di Wilko colpisce chirurgicamente, mentre Lee si danna l’anima alla voce, che suona come quella di un contadino del Mississippi, ma con pronuncia tutta da periferia british.
A seguire Boom Boom, uno dei brani manifesto nel saccheggiato repertorio del grande bluesman John Lee Hooker. All’epoca i Blues Brothers non esistono ancora e la versione suonata da Wilko, qui anche alla voce, è molto simile a quella che John Lee suonerà nel film. La voce di Johnson è meno efficace di quella del vocalist titolare, qui efficace all’armonica. Wilko, nonostante l’aspetto da serial killer in libera uscita, ha una voce delicata e poco aggressiva, non del tutto adatta al blues.
Si va avanti con The more I give, altro rock’n’roll classico, ma meno sostenuto. La successiva Roxette è un altro pezzo forte del repertorio, tanto da dare il nome all’omonima band svedese. Il brano si regge su un insinuante giro di basso di Sparks, doppiato dalla chitarra inconfondibile di Wilko. Un altro piccolo capolavoro che precipita l’ascoltatore al bancone di un pub degli anni Settanta, magari in attesa di una birra rossa di quelle ad alta gradazione.
Down by the Jetty prosegue con una serie di brani estremamente compatti. Da un lato la cosa è piacevole, dall’altro a tratti pare di ascoltare sempre la stessa canzone. La furia dirompente dei live è certo irripetibile, ma va dato atto ai ragazzi dell’Essex di riuscire a far filtrare grande energia anche attraverso la registrazione.
That Ain’t the Way to Behave, ancora cantata da Wilko, è una piacevole eccezione in cui il ritmo rallenta. I don’t mind, di converso, è una furente cavalcata col tipico ritmo da giungla rock alla Bo Diddley. Keep It Out of Sight è un altro cavallo di battaglia col marchio di fabbrica di Wilko alla ritmica, ma con un ritornello vagamente più melodico.
Stesso discorso per All Through the City e Cheque Book, classici sospesi tra Creedence Clearwater Revival e british blues. Wilko Johnson si ritaglia uno strumentale – Oyeh – in cui può dare fondo alla sua scarna ma efficacissima tecnica chitarristica. Infine, un assaggio dei Dr. Feelgood in versione live, quella migliore.
Infatti, a chiudere, Down by the Jetty, arriva un gustoso medley tra i classici rock’n’roll Bonie Moronie e Tequila.
Si arriva alla fine con un po’ di fiatone, tra i ritmi indiavolati e una sezione ritmica spietata, e la sensazione che un po’ di varietà in più avrebbe giovato. I Dr. Feelgood, però, sono questi: prendere o lasciare.
Down by the Jetty è un album importante, forse più per la storia a venire che per l’impronta che lascia. Un disco che, quasi cinquant’anni dopo la sua nascita, non ha perso un grammo dell’anfetaminica energia originale. I Dr. Feelgood faranno ancora in tempo a mettere a segno qualche colpaccio, il seguente Malpractice e soprattutto l’infuocato live Stupidity.
Poi, le forti personalità di Wilko e Lee Brilleaux andranno fatalmente a cozzare, con l’abbandono del primo. Superati dal punk e dalla storia, i Dr. Feelgood navigano in acque malsicure, tra cambi di formazione e un destino che pare accanirsi. Lee, infatti, muore ad appena quarantuno anni, con un desiderio: che la storia della band vada avanti.
E così, ancora oggi, con una formazione che non vede nessuno dei membri originali, i Dr. Feelgood incendiano palchi grandi e piccoli. Il loro culto non è per tutti e non raduna folle oceaniche, ma resiste tenace come pochi altri.
Come l’Inghilterra operaia di un film di Ken Loach.