Gli ZZ Top sono stati uno dei gruppi di più largo successo degli anni ’80. I loro risultati erano in gran parte dovuti al look e all’immaginario che si erano costruiti. Quasi una beffa per tre musicisti blues di incredibile qualità.
Per andare alle radici della storia degli ZZ Top bisogna risalire alla fine degli anni Sessanta. Billy Gibbons è un giovane chitarrista texano innamorato del sound di Jimi Hendrix e con un talento eccezionale per il suo strumento; nella sua band, i Moving Sidewalks, tenta di fondere il rude blues texano con le istanze psichedeliche, must del momento.
Ci riesce piuttosto bene, ma presto la psichedelia tramonta e il nuovo progetto di Gibbons prevede un trio dal robusto sapore rock blues. L’incontro con Dusty Hill e Frank Beard è decisivo. I due hanno suonato in complessi più tradizionali, tra cui i solidi American Blues. Dusty è un bassista che all’occorrenza può cantare e suonare le tastiere. Beard suona la batteria e – a dispetto del nome – sarà l’unico a non cedere al look con la lunghissima barba.
Gli inizi non sono certo all’insegna del successo. I tre, specie dal vivo, sfoggiano un sound robusto dal tiro poderoso, un miscuglio del più classico blues con quello che sarà il suono del southern rock. Il produttore Bill Ham si inventa una sorta di carrozzone itinerante che propone tutti gli stereotipi del Texas sul palco, dai cactus ai serpenti a sonagli. Il risultato è che gli ZZ Top, la cui musica è robusta ma poco fantasiosa, non riescono a varcare gli stretti confini dello stato più conservatore d’America.
La critica è anzi piuttosto severa. La musica non certo innovativa e l’immagine un po’ da redneck non giova, al netto delle grandi qualità strumentali. Dopo i buoni, ma di poco successo, 1st Album e Rio Grande Mud, l’inaspettato boom arriva col terzo lavoro, Tres Hombres. La Grange, un boogie rubato – letteralmente – a John Lee Hooker che narra le peripezie di un bordello, sfonda e fa degli ZZ Top delle piccole star.
Fandango, album registrato per metà in studio e metà dal vivo, e Tejas, con qualche blanda innovazione, proseguono sulla falsariga dei primi. Fino al 1976 i tour sono infiniti, su e giù per gli States, poi la band si impone una pausa. Ham riesce a spuntare un contratto con la Warner Bros e chiede ai ragazzi di concentrarsi sul vecchio repertorio da riordinare, ma i tre vogliono staccare la spina.
Dopo Tejas, gli ZZ Top si disuniscono e si sparpagliano in giro per il mondo. C’è bisogno di qualche disintossicazione, non solo metaforica, e di assorbire nuove idee. Gibbons, in particolare, gira l’Europa e assorbe da una parte la rivoluzione del punk, dall’altra le innovazioni tecnologiche del vecchio continente. Vecchio fino a un certo punto, visto che tutte le grandi rivoluzioni del rock sono sempre partite da lì.
Quando, nel 1979, i tre si riuniscono per vedere di riprendere le fila del discorso, sono tra loro quasi degli sconosciuti. Una cosa però li unisce: lontani dal palco, i tre si sono impigriti e si sono fatti crescere lunghe barbe. Questo tratto, opportunamente studiato e reso scenografico, sarà il segno distintivo di Gibbons e Hill, abbinato ad assurde chitarre girevoli e colorate, auto d’epoca truccate alla James Dean e fanciulle scollacciate.
![](https://www.ondamusicale.it/wp-content/uploads/2022/10/ZZ_Top_Deguello-1000x1024.jpg)
Un’immagine che oggi farebbe inorridire e con cui i tre texani non farebbero molta strada nemmeno alla fiera del bestiame di Waco, certo, ma all’epoca i tempi sono ben diversi. Gli anni Ottanta, con una musica che è la pallida ombra di quella originale, segnata dall’uso scriteriato di sintetizzatori e batteria elettronica, devono ancora piombare sulla storia del complesso.
Lo faranno di lì a poco, portando grande successo grazie a video tutti donne e motori sulla nascente Mtv e al terribile kitsch proposto. Nel 1979, però, siamo ancora a un bivio, quello che divide in due anime Deguello, primo lavoro ufficiale per una major. In Deguello gli ZZ Top introducono quegli elementi che daranno loro il grande successo commerciale ma che li danneranno artisticamente. L’immagine vira al kitsch, la musica è arricchita da innovazioni tecnologiche che riescono a rimanere miracolosamente in equilibrio.
Il risultato è un prodigio irripetibile di misura tra gli eccessi del prima e dopo. La chitarra di Gibbons, eccezionale ma spesso un po’ dispersiva, non ha mai suonato in una direzione così precisa; il clavinet, pescato negli studi Stax, compare un po’ in tutti i brani e l’uso dell’elettronica è ancora gradevolmente pionieristico. I pezzi, poi, stanno nel giusto mezzo tra blues, funk e una spruzzata di soul.
Deguello, il titolo, riprende un grido di battaglia tradizionale messicano, che celebra lo sgozzamento del nemico, a proposito di equilibrio. La copertina propone un’iconografia piuttosto macabra, tra proiettili vaganti e teschi umani.
L’album si apre con una cover, la prima che gli ZZ Top suonano in un disco di studio, I Thank You di Sam & Dave. I musicisti ascoltano alla radio una versione del pezzo in cui Isaac Hayes suona il clavinet e si innamorano del pezzo e del sound; in studio, parlando con l’ingegnere del suono, scoprono che proprio la stessa tastiera è lì, nella stanza a fianco. Decidono così di utilizzarlo.
La versione di I Thank You degli ZZ Top parte dal caldo soul di Sam & Dave e arriva a una resa molto più fredda e distaccata, più incline al funk. Il lavoro di Billy Gibbons alla chitarra è notevole, con una prima parte molto pulita e precisa e una seconda con una slide ampiamente filtrata.
Si passa al classico rock’n’roll di She Loves My Automobile, che introduce il tema delle automobili. Per il pezzo i tre si improvvisano sassofonisti, dando vita a una riuscita sezione fiati alla Little Richard. Alla voce troviamo Dusty Hill, ma sugli scudi è ancora Gibbons che dà fondo al suo repertorio di Texas Blues, con un suono che omaggia i grandi bluesman neri e anticipa Stevie Ray Vaughan.
Ascoltare la chitarra di Billy e convincersi che non sia Stevie Ray a suonare è quasi impossibile.
Si passa a un altro pezzo forte, I’m Bad, I’m Nationwide. Alla voce torna Gibbons, particolarmente gigione nella sua prestazione. Il ritmo è quello di un boogie rilassato, con degli inserti di un mandolino messicano prestato dal bluesman Joey Long. Billy suona diverse parti di chitarra, ognuna con un effetto diverso, in un vero bignami di arte chitarristica.
Grazie a un Echoplex Doubler e a un Maestro Octave Box, Gibbons si diverte a far finta che ci siano tre chitarristi diversi. Lo strumento suona fortissimo in primo piano, con fraseggi da antologia. Stevie Ray Vaughan deve aver consumato questo disco in cerca di ispirazione.
Si capisce anche dall’attacco della successiva A Fool For Your Stockings, un bel lento nella cui intro aleggia ancora il fantasma di Vaughan. Il giro di basso di Hill è ricalcato su quello di Just Got Back from Baby’s, favoloso slow blues del primo album, in una compiaciuta autocitazione. La chitarra – qui dal suono più sottile e quasi acustico – fa ancora scintille, in puro stile texano.
Manic Mechanic è l’episodio più straniante e quello che più anticipa gli anni ’80.
Musicalmente si tratta di un funk a tratti inconsistente, con effetti ambientali e soprattutto voce e chitarra distorta. Gibbons ha ascoltato in The Phil Donahue Show un Pitch shifter usato per camuffare la voce e si incapriccia per utilizzarlo. Il risultato non invoglia certo a un ulteriore ascolto.
L’album riprende quota con un’altra cover, la celebre Dust My Broom scritta da Robert Johnson. La versione degli ZZ Top riprende però l’arrangiamento più famoso, quello di Elmore James, con tanto di chitarra riff a suonare il mitico riff. Al microfono torna Dusty Hill, con credibilità blues tutta texana. La Dust My Broom degli ZZ Top è filologicamente impeccabile.
Ancora con Dusty alla voce, arriva Lowdown in the Street, che rientra nel filone delle storie on the road, sempre care ai texani. L’atmosfera è ai limiti di un rilassato hard rock, a cui Gibbons regala un assolo un po’ sottotono rispetto al resto del disco.
Con Hi Fi Mama si torna al rock’n’roll più scatenato, con Dusty che tenta di emulare Little Richard, urlando come un ossesso sulla sezione fiati. La chitarra di Gibbons, perdonate la ripetizione, è sublime e ancora una volta anticipa totalmente il suono che qualche anno dopo renderà una leggenda Stevie Ray Vaughan.
Cheap Sunglasses è invece un altro funk con ampio utilizzo di effetti chitarristici. Gibbons racconta che il suono così rotondo della sua Les Paul è dovuto all’amplificatore Marshall Major da 200 watt con una valvola rotta. Nella coda finale, Billy omaggia lo stile di Bo Diddley servendosi anche di un piccolo delay digitale.
La chiusura di questo bell’album è per una ballata ai limiti del pop a cui il sound anni Ottanta si rifarà molto, Esther be the One. La voce di Dusty Hill è leggermente incongruente, applicata a un pezzo del genere, ma nel complesso si difende bene. Gibbons regala gli ultimi svolazzi chitarristici a concludere un tour de force che sorprende chi considera gli ZZ Top una band prevedibile.
Deguello, infatti, è un lavoro dove si confeziona uno dei cambi di passo più sorprendente della storia del rock. Molti, all’epoca, pensano che gli ZZ Top siano un gruppo alla frutta, che ha detto già tutto quel poco che aveva da dire. E invece, almeno in Deguello, il complesso riesce a dosare gli ingredienti creando un piccolo classico. Gibbons, meno impegnato alla voce, fornisce forse le sue prove migliori come chitarrista; Hill si prende le luci della ribalta al microfono e Beard, poco appariscente come al solito, detta il ritmo senza sbagliare un colpo.
I dischi successivi, soprattutto da Eliminator in poi, vedranno il successo, quello più grande, ma la qualità ne risentirà non poco. Deguello, però, rimane ancora oggi il lavoro più godibile degli ZZ Top, un efficace saluto agli anni Settanta e un inno al cambiamento.
“Certa gente fatica ad accettare i cambiamenti, ma noi sapevamo esattamente dove avremmo potuto spingerci” ricorda Billy. E lo sapevano di certo, gli ZZ Top, almeno fino a Deguello.