Se lo zeitgeist sterminato di questa generazione (sterminata) fosse anche lontanamente lo stesso per cui è stato concepito The Car, l’ultima fatica degli Arctic Monkeys, l’attacco così elegantemente disarmato di There’d Better Be a Mirrorball ci farebbe saltare dalla sedia in preda a delle candide convulsioni, disfatti di ogni retorica compulsiva proveniente dal loro ultimo lavoro, eroticamente e intellettualmente pronti per intrattenere un ménage di trentasette minuti con l’unica band che nel rock degli ultimi vent’anni non è ancora una vuota e lacerata sagoma di se stessa.
Questo disco, così come Tranquillity base, vive in assoluta contraddizione con ogni lavoro delle scimmie precedente a quest’ultimo, e non è semplicemente adatto a sopravvivere nella propria epoca
E per questo, come la storia ci insegna, meriterebbe la forca. Dunque se nel lontano 2018 Turner era accusato di escapismo interstellare dai suoi stessi fan, a distanza di quattro anni si è reso, come la più pura e svergognata ragione kantiana, giudice e imputato di se stesso, in un tribunale dove la critica e il pubblico sono più divisi che mai, in nome del classismo intellettuale e della rozzezza materiale che secondo i più antichi e radicati stereotipi musicali contraddistingue l’una dall’altro.
È questo lo scenario su cui vengono poste le fondamenta di The Car
Alex Turner e la sua squadra sfidano le classifiche non più con un barocco cinematografico dal sentore post apocalittico, ma con una levigata profezia sartoriale fatta su misura per il falsetto e per l’orchestra, i veri protagonisti indiscussi di questo album. Così quei pochi secondi che precedono l’attacco di Mirrorball potrebbero redimere l’ascoltatore più tenace, l’ipocrita ascoltatore-lettore di Baudelaire, che in data ventidue ottobre 2022 sperava di riscattare se stesso, più che la sua band preferita, dal più grande passo falso che un gruppo ormai divenuto mainstream potesse mai compiere: rinnovarsi. È stato tanto difficile deglutire il bolo baroque pop del 2018, in cui Turner aveva già informato prima di tutto se stesso su quale fosse la direzione da seguire per non diventare un trentenne che insegue l’adolescente post punk del 2006, che dal canto suo, canto ingenuo proveniente da un volto invaso dall’acne e dalle turbe giovanili, ha spiazzato gli Oasis dal podio del record per album di debutto in Inghilterra venduto in minor tempo.
Questa fu la consacrazione degli Arctic Monkeys
Una stardom pressoché immediata gettata sulle spalle di quattro adolescenti che suonavano i pezzi degli Strokes in un garage fino a poco tempo prima, una condanna ad implodere in pochissimo tempo, come la definì la stampa britannica, oppure interpretata col segno di poi in ottica di più recenti fenomeni nostrani, una raccomandata per il successo mainstream, l’edonismo Hollywoodiano, il sesso droga rock n’ roll, ma un’evidentissima e a tratti ridicola carenza di materiale degno di reggere il confronto col tempo.
Le possibilità erano queste due
Abbattersi o essere abbattuti in un ciclico ed hegeliano rifacimento della storia musicale. Turner e soci hanno scelto una terza strada, o meglio, l’hanno percorsa nascondendosi. Difficile dire se quest’ultima rappresentasse la “strada meno battuta” di cui parlava Robert Frost, oppure fosse semplicemente un tentativo di dissimulazione, fatto sta che a distanza di quasi vent’anni siamo qui a discuterne, mentre Alex Turner si pasce dei suoi deliri compositivi adeguatamente provocatori da far rivoltare un’intera fandom.
Ed è esattamente ciò che ci si doveva aspettare da un artista
Perlomeno, ciò che ci si dovrebbe aspettare da un artista. In questo senso non riesce difficile immaginarsi perché The Car abbia ricevuto recensioni positive dalla borghesia musicale (quella estera) e recensioni negative dal proletariato musicale (quello nostrano). L’unico scenario realmente apocalittico è quello in cui l’ascoltatore medio giace sul suo divano assuefatto all’abitudine, così come nella vita, anche in musica, e mai e poi idolatrerebbe un fenomeno che, per l’appunto, agisce fenomenicamente, cioè in maniera imprevedibile. Interessante riprendere qui le parole di Piero Scaruffi che risponde ad una lettera di un fan a proposito dell’idolatria che si verifica in musica, parlando nello specifico del grande David Bowie:
“Ce l’ho certamente con il fenomeno delle star, o, meglio, mi da` fastidio che il pubblico si lasci condizionare dalla stardom di questo o quello. Il marketing e` spesso quello che determina cio` che la gente consuma (e cio` che tanti miei lettori reputeranno “grande”, “importante”, “influente”, etc). Se Bowie non fosse diventato un personaggio da rotocalco, dubito che tu avresti perso tempo a scrivermi, cosi` come non mi scriverai mai a proposito di migliaia di musicisti che non sono altrettanto famosi, ma per i quali forse valgono le stesse considerazioni che fai per Bowie.”
È proprio da qui che ci si dovrebbe muovere per arrivare a considerazioni lirico – musicali sul disco che non siano state già vomitate virtualmente.
The Car non è il miglior prodotto degli Arctic Monkeys, né da un punto di vista lirico che da un punto di vista musicale, ma contiene degli imprescindibili punti cardine che lo rendono un album che vale la pena di essere ascoltato, metabolizzato e deglutito dall’inizio alla fine più dal cervello che dallo stomaco. Musicalmente parlando siamo lontani anni luce dall’esordio (e chi l’avrebbe mai detto?) così come siamo sulla scia di Tranquillity Base, ma c’è da fare attenzione a questo tipo di retorica: l’oggetto di rinnovamento di quest’opera è spalmato equamente tra lirica e musica, non giace nell’atmosfera di straniamento che provocava il penultimo album, così come non si appoggia sull’edonismo pop rock del loro album più fortunato, ovvero AM del 2013.
Si può sostenere che la vera innovazione di The Car consista nell’avere una sua propria identità non rintracciabile se non con lenti di ingrandimento in altri lavori del gruppo di Sheffield, nell’essere dunque un prodotto concepito a priori, in senso trascendentale, da ogni logica di mercato
È così che dal rock orchestrale di Mirrorball si giunge a al crescendo sfacciato e ingannevole di Body Paint, passando per uno dei brani più criptici mai scavati dalla penna di Alex turner, Sculpture of anything goes, che riesce nell’intento di disorientare ma non in quello di depurare, e attraversando la riuscita sperimentazione funk di I ain’t quite where I think I am, anche questo un pezzo che comunica disperatamente un qualche senso di straniamento che verrà approfondito liricamente.
Oltre la traccia di apertura, il grande punto d’arrivo di questo disco giace nella sensucht di Big Ideas, nella sua malinconia vezzeggiativa, nella quale solo la voce di Alex Turner avrebbe potuto rendere il pezzo quello che è all’orecchio dell’ ascoltatore più sensibile: una confessione. Il canto non è lancinante né teatrale come quello di Bowie (terribilmente paragonato più volte a Turner), semmai pianta le sue radici più nel crooning degli anni ‘50 che nel glam o nell’elettronica, e contiene in sé tutto ciò che basta per arrivare.
La progressione si basa su una struttura 2-5-1
Cosa inusuale per una band che ha esordito con un album post punk al fulmicotone, l’assolo di chitarra è semplicemente cesellato nella sua brevità, come una benedizione non concessa seppur meritata per le orecchie dell’ascoltatore. Amen. “exquisitely tailored, masterfully crafted”, così ha parlato dell’album Andy Hill del magazine Clash. Ci fossero stati più brani di questa caratura, The Car sarebbe diventato il definitivo capolavoro delle scimmie e del songwriting di Turner. Fortunatamente la realtà è che l’essere umano è fallace tanto quanto è sinceramente abile di redimersi, e così come alcuni episodi minori dell’album potrebbero annegare le gemme nascoste di una scrittura evidentemente maturata, gli episodi migliori riportano a galla un gruppo che ha ancora molto da comunicare.
Le reminiscenze acustiche e languide di Mr Schwartz strizzano l’occhio al jazz e alla bossa nova (stiamo ancora parlando degli Arctic monkeys di Arabella?) mentre la chiusura è affidata all’unico brano che avrebbe potuto mai mettere un punto a quest’album, Perfect Sense, la dolcezza intrinseca di chi ha scoperto che scrivere canzoni è un lavoro più violento se applicato direttamente sulla propria pelle, e dunque canta ancora cripticamente delle proprie ferite. Stiamo ascoltando esattamente “The Ballad of What Could Have Been”, la ballata di ciò che avrebbe potuto essere, come ci suggerisce furtivamente il testo di Big Ideas.
Con immensa dolcezza si chiude la settima fatica degli Arctic Monkeys, con immensa dolcezza Alex Turner vorrebbe chiudere musicalmente il cerchio
Se solo bastasse questo per considerare un album concluso. Se solo potessimo chiudere spotify e considerare il nostro lavoro compiuto, potessimo esentarci dai tormenti che la nostra ragione ci richiede, inevitabilmente, nella sua purezza. Bisogna scavare e bisogna farlo con l’orecchio di chi legge, per intravedere un che di significativo nelle liriche di quest’album. A primo impatto l’occhio più allenato potrebbe riconoscere in quel Mr Schwartz di cui si narra nella penultima traccia il Delmore Schwartz mentore di Lou Reed, poeta statunitense morto distrutto dalle proprie abitudini, al quale il testo per l’appunto corrisponde senza neanche troppe forzature: purtroppo lo stesso Turner ha smentito la citazione in una recentissima intervista, ma quanto ci piacerebbe se non fosse così, quanto sarebbe bello se oggi qualcuno rendesse ancora omaggio a chi il rock l’ha suonato, scritto e cantato per davvero? Ma questa è indicibilmente un’altra storia.
Matthew Strauss di Pitchfork in una stringata ma ben scritta recensione ha parlato di un tentativo disperato di sincerità da parte di Turner nell’esprimersi nascondendo abilmente versi di un candore quasi adolescenziale, come:“And if you’re thinking of me I’m probably thinking of you”. E ancora in Mr Schwartz:“Come here and kiss me now before it gets too cute”
In un’intricata rete di sproloqui ai quali siamo già stati abituati con gli altri album
È così che Turner si perde in palle a specchio, spie non più ritirate in mattinate di caffè del Village, film lego-napoleonici, insomma in una pastura di deliri che potrebbero essere stati scritti da Dino Campana nella sua stanza del manicomio di Castel Pulci: “It’s as if it’s the one line Turner truly wants to deliver and he’s crafted an entire song around it just to muster up the courage to sing it.”
Per l’appunto, come se Alex Turner non avesse ancora il coraggio di dirci che soffre per amore come quando scriveva vent’anni fa. È questa componente lirica che trasforma l’artista in un trapezista al limite tra una sfacciata difficoltà poseur, intenta a nascondere mancanza di idee, e una pura e tangibile genialità di scrittura.
A questo, come credo molti altri recensori, io non so dar risposta
Ne consegue che ciò su cui ci si può costruire un giudizio critico su questo ultimo lavoro degli Arctic Monkeys è soltanto ciò che vi si riesce ad estrapolare, sia dalla musica che dai testi, senza cadere nel gravissimo errore di definirla musica lounge. Musica di sottofondo, d’ascolto che non necessità della benché minima attenzione, come è stata già etichettata da illustri recensori. Vi si prega da questa analisi di non sfociare nella retorica, nel qualunquismo, nel disimpegno musicale.
Che vi piaccia o meno, è evidente che l’unica richiesta di Alex Turner nello scrivere un album come The Car é quella di esser preso sul serio, e allora diventa naturale chiedersi, quand’è che inizieremo a farlo?
(articolo scritto da Elvio Carrieri)